Pubblichiamo un estratto da Storie di letteratura e cecità di Julián Fuks.

Nella mattina di Cambridge, lo stormire delle foglie e il fluire delle acque si alleano in un’orchestra di rumori antichi. Seduto su una panchina davanti al fiume Charles, Borges esamina l’impressione di aver già vissuto quell’istante. Misura la propria stanchezza, per giudicare se sia la causa di tale distorsione, poi ripercorre uno e più ricordi che giudica non debbano essere rievocati: niente di ciò che può trovare sembra giustificare la ricalcatura che, come sa, è opera di un déjà vu. Dandosi per vinto, Borges riporta l’attenzione all’ambiente un tempo deserto e sente che, all’altra estremità della panchina, si è seduto qualcuno. Preferirebbe stare solo, ma non desidera affrontare la scortesia di alzarsi.

L’altro inizia a fischiettare e lui riconosce lo strano stile vacillante e anche la melodia intonata. La voce giovane che si aggiunge, nel coro, è ancora più riconoscibile. Borges non può evitare di intavolare un dialogo:

— Lei è argentino?

— Argentino, ma abito a Ginevra dal 1914 — risponde il giovane.

— Al numero diciassette di rue Malagnou, di fronte alla chiesa russa?

— Sì, abito lì.

— In tal caso, lei si chiama Jorge Luis Borges. Anch’io mi chiamo Jorge Luis Borges. Siamo nel 1969, nella città di Cambridge.

— No. Io sono qui a Ginevra, in una panchina a pochi metri dal Rodano. La cosa strana è che, di fatto, ci somigliamo, anche se lei è molto più vecchio di me e ha i capelli grigi.

Borges riesce a dimostrare di non mentire, citando elementi della vita del giovane che uno sconosciuto potrebbe solo ignorare. Le due file di libri nell’armadio di camera sua, la biblioteca con gli scaffali protetti da vetri di suo padre, i tre volumi delle Mille e una notte, il Minotauro nella litografia con il labirinto di Creta, il Don Chisciotte, il dizionario di latino, un tramonto in piazza Dubourg.

— Dufour — corregge il giovane.

— Dufour, certo. Soddisfatto?

— No, questo non prova nulla. Se sto sognando, è naturale che lei sappia tutto ciò che so.

L’obiezione è corretta. Ognuno dei due potrebbe essere il sognatore di quel sogno. Il tacito accordo è accettare le circostanze, così come si accetta l’universo e il fatto che sia necessario vedere con gli occhi e respirare. Borges finisce per cambiare argomento.

— Non vuoi sapere qualcosa del mio passato, che è l’avvenire che ti attende? La mamma è in salute, vive in un appartamento di calle Maipú, mentre il babbo è morto di cuore ormai da una trentina d’anni. Morì con l’impazienza di morire, ma senza un lamento, così come aveva fatto sua madre, nostra nonna, nella stessa casa qualche anno prima. Norah, nostra sorella, si è sposata e ha avuto due figli.

Il giovane ascolta senza prestare molta attenzione, rifiutandosi di ricoprire la funzione fatica che gli spetta. È solo per interrompere l’onnipresenza del silenzio che finisce per domandare:

— E lei?

— Non so per certo il numero di libri che scriverai, ma so che sono troppi. Scriverai poesie che ti daranno un piacere non condiviso e racconti di carattere fantastico. Darai lezioni, come tuo padre e come tanti altri del nostro sangue.

Interpretando il silenzio del giovane come prova del suo disinteresse, Borges interrompe il racconto. Il fatto che tutto ciò sia impossibile fa sì che entrambi si sentano poco a loro agio. Anche se prova un grande affetto per il giovane da poco incontrato, più intimo di quello per un figlio della propria carne, il malessere di Borges diventa sempre più irrazionale e insopportabile. Non erano preparati, conclude. L’incontro sta già durando più di quanto desiderino entrambi.

Borges gli propone di rincontrarsi il giorno seguente, negli stessi due luoghi. Quando il soprannaturale accade due volte, spiega, smette di essere terrificante. Il ragazzo annuisce e si congeda, ma Borges cerca di impedirne la partenza, sentendo che non si sarebbero mai più incrociati:

— Ah, solo un’ultima cosa — e il giovane, che Borges sente lontano, sembra fermarsi per ascoltare le ultime parole. — Tu sarai due. Due oltre a noi due, chiaro. Uno di loro sono io, un altro è quello che chiamano Borges. Io cammino per Buenos Aires e indugio, forse ormai meccanicamente, di fronte a un androne. Meccanicamente, perché non ci vedo già più. Alla mia età, tu avrai perso la vista quasi del tutto. Mi piacciono gli orologi a sabbia, le mappe, la stampa del XVIII secolo, le etimologie, il sapore del caffè. Anche l’altro, il Borges, condivide queste preferenze, ma in modo diverso, vanitoso, che le muta negli attributi di un attore. Ricevo sue notizie per posta, e a volte vedo il suo nome in qualche dizionario biografico. È a lui che succedono le cose. Nei suoi libri, ci sono anche delle buone pagine, ma mi riconosco meno nelle sue che in quelle di molti altri autori. Qualche anno fa, cercai di liberarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giochi con il tempo e con l’infinito, ma quei giochi sono di Borges ora, e io dovrei ideare altre cose. Così, la mia vita è una fuga, io perdo tutto e tutto appartiene all’oblio, o all’altro.

Il giovane non è più lì e Borges è consapevole di stare parlando al vento, alle foglie, al fiume. Solitario, non ascolta più la risposta lenta delle acque, né la brezza desidera mettergli a disposizione il suo fischio. Non sa di preciso dove si trova. Per un istante, pensa di poter essere l’altro sognatore, di trovarsi a Ginevra e di non aver ancora vissuto tutto ciò che immagina. Incapace di vedere il suo corpo, le sue mani, le sue gambe, Borges non sa dirsi né giovane né vecchio. Veglia o sogno, tutto ciò lo tormenta, e Borges deve liberarsi di quell’episodio. Incapace di dimenticare, ne scriverà solo tre anni più tardi, sotto forma di racconto, in “L’altro”. Chissà se la finzione potrà prendere il posto della realtà, così che Borges possa infine convivere in pace con la storia.

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