di Alberto Carollo per LANKENAUTA

 

Uno dei pregi delle edizioni Wordbridge – edizioni digitali e non solo – è quello di aver sdoganato per il lettore italiano questa piccola/grande perla ch’è Storie di letteratura e cecità. Il suo autore, Julián Fuks, è uno dei più celebri scrittori brasiliani della nuova generazione, ahimé ancora poco noto in Italia. L’ultimo dei suoi quattro romanzi pubblicati, A resistênciasulla dittatura militare in Argentina e la fuga di molti intellettuali dal regime, ha vinto il premio Jabuti, il più importante riconoscimento letterario brasiliano. Nel 2012 è stato inserito nella rivista letteraria Granta tra i venti migliori giovani autori brasiliani.

Ho colpevolmente parcheggiato questo epub nel mio pc per mesi, a causa di alcune letture cartacee arretrate, ma una volta aperto ne sono stato letteralmente ammaliato. Un respiro breve, di rara freschezza ed eleganza, merito anche della cura di Giacomo Falconi che ha tradotto il testo dal portoghese. Storie di letteratura e cecità è un singolare ibrido tra saggio e narrativa; a partire dal tratto caratteristico della menomazione agli occhi, che accomuna tre autori molto diversi come Jorge Luis BorgesJoão Cabral de Melo Neto James Joyce, Fuks intesse episodi frammentati, rivoli del quotidiano e microstorie che li riguardano, amalgamandoli a precisi riferimenti biografici e a perlustrazioni della loro opera, distillando questa materia ineffabile in una quasi finzione (o in una quasi realtà) che credo sarebbe piaciuta a Borges.

Non è un caso che lo stesso Fucks abbia commentato, in un’intervista, che Borges non avrebbe disprezzato tanto questo libro perché ha il suo carattere tipico di evocare il reale e la critica letteraria nel territorio proprio del romanzo. L’idea di queste Storie nasce dall’inquietudine provata leggendo proprio Borges, unita alla curiosità e alle riflessioni sulla persona cieca, privata del più fondamentale tra i sensi. La constatazione ulteriore, e conseguente, è stata quella di rappresentare le diverse modalità di reazione al difetto, lo squilibrio tra lo scrittore cieco che contrasta e supera l’avversità e quello che si arrende al silenzio.

«La luce non gli è indifferente. Né la sua totale assenza gli concede un’oscurità perfetta. Le persone concepiscono un cieco come un individuo imprigionato in un mondo nero, senza sapere che quello è uno dei colori di cui si sente più la mancanza.» Esistono molti luoghi comuni sulla cecità, che ha diverse sfumature e l’esser completamente ciechi non è lo stesso di essere ipovedenti, non risulta mai un concetto ovvio per chi gode inconsapevolmente del privilegio della vista; così com’è diverso esser privi di questa facoltà dalla nascita o esser divenuti ciechi in seguito. Anche la divinazione attribuita a molti ciechi è sovente una forma di mistificazione. Gli altri sensi che ne risulterebbero più affinati, la maggiore sensibilità al suono, al tatto o lo sviluppo esponenziale del terzo occhio del chakra. Non è così, o per lo meno non lo è sempre.

Jorge Luis Borges ereditò la malattia del padre, una retinite pigmentosa che, unita a una forte miopia, gli provocò prima una ipovisione e in seguito la cecità completa. Questo lento processo, che durò vent’anni, non procurò un rallentamento della sua creatività e del suo ritmo di lavoro. Ma nel libro di Fuks non c’è alcun referto, nessuna diagnosi – lasciamo al commentatore la libertà di chiosare su questi elementi –, bensì l’evocazione di una realtà evanescente e onirica, tra il sonno e la veglia, un’attesa di morte. Una morte accettata dal “cieco bibliotecario argentino” con costernazione, forse, perché veniva a spezzare un’abitudine – e Borges era un grande abitudinario – ma accettata con pienezza, come la fine di un capitolo. “And ne forhtedon na”, Giammai con timore, come recita in inglese antico la scritta sulla sua lapide, nella quiete di un cimitero ginevrino.

Non ho avuto la fortuna di conoscere l’opera di João Cabral de Melo Neto, il protagonista della seconda sezione di Storie di letteratura e cecità, ma il sottile piacere di infilarsi in un libro come quello di Fuks, che si rivolge ai bibliofili (e non solo a loro!), è che inevitabilmente si verrà condotti in altri libri. Semmai, nella sua esile e limitata estensione spaziale (non sono molte le pagine delle Storie) e temporale (inteso come tempo di lettura) credo che ci siano pochi testi in circolazione che sottendano, come questo, un ipertesto e il lettore che vorrà approfondire potrà costruirsi una ricca biblioteca con l’ampia e accurata bibliografia che Fuks suggerisce in appendice. Cabral, poeta e diplomatico brasiliano, è poco conosciuto in Italia. È possibile reperire alcune sue sillogi poetiche presso l’editore Scheiwiller. Nel secondo episodio delle Storie Fuks ce lo racconta mettendo in scena l’intervista che il poeta concesse nel suo appartamento di Rio de Janeiro a un giovane giornalista. Il giornalista è intimorito dalla statura del poeta, che però ha rinunciato a scrivere dopo aver perduto la facoltà di vedere a causa di una fotofobia. Cabral ribadisce che non ha nulla da dire, che non legge più, che la letteratura ha perso significato per lui. L’arrivo della figlia del poeta ammorbidisce l’atmosfera tesa tra i due, complicata da un probabile attacco di angoscia che colpisce Cabral. È l’occasione per riavvolgere il nastro del percorso vitale del poeta, di come si è accostato alla sua arte.

La poesia irrompe spesso nelle Storie di Fuks, le trasfigura e le rende impalpabili, stemperando la dimensione angusta e cupa della solitudine che ghermisce i personaggi/autori di cui si racconta, geniali o brillanti che dir si voglia ma scontrosi e non proprio empatici nei confronti del prossimo, almeno basandosi sulle loro autobiografie. Mi si chiede una poesia, | una poesia che sia inedita | una poesia è una cosa che si fa vedendo, | come immaginare Picasso cieco? | Una poesia si fa vedendo, | una poesia si fa per la vista, | come fare una poesia dettata | senza vederla nel foglio scritto?

L’ineluttabile modalità del visibile. Così anche l’episodio che riguarda James Joyce risuona delle sue opere e della Dublino che ha portato con sé anche da esule. I Dubliners, Stephen Dedalus, l’Ulisse, la lingua chimerica del Finnegan’s Wake ma anche i delicati versi di Musica da CameraChi passa nel sole | per vie che sanno l’orma lieve? | Chi passa nel dolce sole | così verginale? Fuks si domanda (o forse è Joyce che se lo chiede, o entrambi) se uno scrittore può sapere l’esatto istante in cui la sua opera è terminata. Non un romanzo o un libro, ma l’opera della sua vita. E ancora il presagio, l’attesa della morte, l’oscura chiaroveggenza e l’aneddoto che fa capolino, sublime nella sua semplicità: «Un cappello riposava sopra il letto, e James Joyce non ebbe la forza di chiedere a Nora di raccoglierlo. Il cappello appoggiato sul letto preannuncia la morte, lui lo sa, ma non ebbe la forza di impedire l’annuncio. Nora non prese l’iniziativa di raccogliere il cappello, e Joyce non ebbe il coraggio di ripeterle la domanda di trentasei anni prima, ancora a Dublino. Esisterà qualcuno che lo comprenda?»

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