Charles Mankuviac. Brasiliano, nonostante il nome. Uno scrittore contemporaneo con un’eco mondiale, nonostante sia brasiliano.

La sua agente, un’anziana signora che eccedeva sempre con la lacca e con il rossetto rosso, lo rassicurava del fatto che questo fosse il punto più alto della sua carriera. Questo. A partire da ora, Mankuviac entrerà a far parte degli scrittori brasiliani più invidiati, è stato tradotto in inglese, sta per essere lanciato dalla più importante casa editrice statunitense e lei lo sa quanto sono restii i nordamericani a pubblicare traduzioni, non lo sa, Mankuviac? No? Il mercato “interno” dei loro autori domina con oltre il 90% delle pubblicazioni. Al contrario del Brasile, che vive di traduzioni, qui loro consumano solo prodotti locali. Pertanto, sig. Mankuviac, lei si deve sentire speciale, lei sta per essere lanciato qui, e non per essere dimenticato in uno scaffale, lei sta per essere lanciato con una campagna pubblicitaria battente, il suo libro è in mano a gente come Michiko Kakutani, del New York Times. Lei lo sa quanto è raro che un libro brasiliano riceva un’accoglienza del genere? Le lo sa che considerano il portoghese una lingua marginale? In questo stesso istante, il suo libro potrebbe essere sfogliato da James Wood, l’unico critico possibile, concluse l’agente.

Mentre lei parlava, Charles M. si limitava a camminare tracciando cerchi irregolari per la stanza dell’hotel in cui si trovava. Si sentiva il cuore gonfio. Disse alla sua gente: “Mi sento il cuore gonfio”, e lei rise come se si trattasse di cattiva poesia o meglio, come se si trattasse di un’ironia sulla cattiva poesia (molto più tollerabile), ma quella era comunque una sensazione, e Mankuviac l’avrebbe descritta con una sincerità non comune tra romanzieri.

Mancavano cinque ore alla sua prima lettura pubblica (quella che non aveva mai fatto in Brasile, ad eccezione di buie serate frequentate da alcolisti e studenti di teatro) e alla sessione di autografi a New York. Lui, che non si era mai spinto più in là dell’Argentina. Il suo inglese era buono, chiaro, ma restava un inglese appreso artificialmente nei corsi. E le critiche? Che penseranno là del suo libro? Avrebbe superato le frontiere culturali? Aveva smorzato a sufficienza i tratti tipici di brasilianità? O meglio: era riuscito a costruire una cartografia del Brasile in grado di essere apprezzata dagli americani del ventunesimo secolo? La ricezione del libro: la peggiore delle preoccupazioni, senza alcun dubbio. Quel monologo infinito della sua agente su Kakutani e Wood lo aveva lasciato solo più nervoso.

Le nove del mattino. “Non vuole che vada a prendere i giornali?” “Sì, per l’amor di…, sì, pensavo che non me l’avrebbe mai chiesto.” L’agente scese. Charles si buttò sulla poltrona e chiuse gli occhi. Quando lei ritornò, teneva in mano una borsa piena. Vediamo, vediamo. Critica del New York Times: vaga, ma positiva. Charles respirava come se l’ossigeno venisse colato dallo spiraglio della finestra. Il secondo giornale non aveva l’autorevolezza di un Times, era un quotidiano secondario, nelle parole dell’agente. Leggiamolo comunque:

“Finalmente, il nostro paese può conoscere l’opera di Charles Mankuviac, grazie alla recente traduzione de I riti. Sull’onda del fenomenale successo ottenuto dal libro nel suo paese di origine (Mankuviac è brasiliano), la casa editrice lancia anche la sua prima raccolta di racconti e il precedente romanzo.”

Charles sghignazzò sentendo parlare di “fenomenale successo in Brasile”. Il problema, tuttavia, si ebbe con ciò che venne dopo. Quando lui e l’agente terminarono la lettura della critica, lei gli scosse la mano e disse: “Però, che critica positiva!” Sì, non c’era spazio per i dubbi. Una critica davvero positiva.

Tuttavia.

La conclusione della critica. La conclusione che inizia con le parole “Si può affermare che in tutte le opere di Mankuviac, il tema centrale è”. Due punti, quindi un riassunto. Terminando una frase, il critico riassumeva i suoi tre libri tradotti in inglese. Un riassunto che si applicava anche agli altri suoi libri, disponibili solo in portoghese.

“Mmm”, gemette Charles, senza aver ancora digerito tutto ciò che rappresentava quel commento. Strano, in Brasile non lo hanno mai sottolineato, pensò. Né la critica sulla carta stampata, né quella accademica. Il sudore iniziò a scendere, prima una goccia a scorrere dalla linea che separava la fronte dal cuoio capelluto. Poi un’altra, e un’altra. Curioso, pensò Charles. Una cosa da americani, quella di cercare un’unità dove ci sono solo frammenti. In parole povere, credono ancora alle totalizzazioni. Tuttavia. E il sudore aumentava.

L’agente tirò fuori il terzo giornale dalla borsa. Individuò la critica, ma Charles la interruppe. Fu quando lei spostò gli occhi dai giornali e guardò il volto madido dello scrittore che notò gli occhi sgranati. Gli chiese se andava tutto bene, e lui disse di sì, doveva solo farsi un bagno, una doccia rapida, nient’altro, poi avrebbero continuato a leggere le critiche.

Entrò nell’ampio box doccia. Aprì il rubinetto dell’acqua calda. La cosa più fastidiosa degli hotel: non riuscire mai a regolare la temperatura in bagno. A casa nostra avviene in automatico, in hotel no, prima molto calda, poi molto fredda, decenni passati a cercare di ottenere la temperatura ideale. Aprì leggermente l’acqua fredda. Al diavolo il critico e il suo commento del cazzo, che bastardo. Proprio una cosa da americano. Riassumere tutto con una sola frase. Questo autore è X. Quello è Y. McEwan è razionalismo. Javier Marías è digressione. Questa non è una critica.

L’acqua divenne molto calda, passarci sotto per più di due secondi avrebbe voluto dire bruciare il cuoio capelluto. Forse il problema era la lingua inglese, magari una delle parole usate dal critico era intraducibile in portoghese. Chi non si interessa di traduzione può pensare che tutte le parole siano tranquillamente traducibili da una lingua all’altra, ma in realtà le parole sono rivestite di individualità. Nessuna parola ha un equivalente in nessun altra lingua. L’inglese, ad esempio, ha un ingombro lessicale che, trasportato in portoghese, è come cercare di infilare un elefante nella cuccia di un cane. Niente è traducibile, ecco perché solo in inglese si possono trovare i termini che riassumevano la prosa di Mankuviac, come fossero password. Delle chiavi con cui entrare, scardinare, invadere tutta una prosa, tutto un mondo.

Il vapore appannò completamente il vetro. Charles aprì un po’ di più l’acqua fredda. La temperatura non sembrava volersi abbassare neanche di un grado. Eppure è così, pensò, ho scritto sempre e solo su questo argomento, per tutta la vita. Come se avesse bisogno di risolvere la questione. Senza mai riuscirci. Non c’è niente di sbagliato in questo. Woody Allen fa praticamente lo stesso film da tutta una vita, con protagonisti nevrotici e intellettuali. Hemingway scrisse sempre in quel modo, nascondendo la vera trama. C’è un nome per questo: stile. Seguo il mio stile, è così. Charles chiuse del tutto l’acqua calda.

Avrebbe cominciato dall’acqua fredda, ecco una strategia. Ma come scrivere partendo da questo? Il suo prossimo libro avrebbe dovuto essere diverso. L’acqua venne giù gelata. Lo shock termico fece saltare Charles all’interno del box. Per qualche istante, provò a insaponarsi e a immaginarsi di immergersi nelle acque dell’Antartide. Allo stesso tempo, non c’era motivo per scrivere nulla di diverso. La sua vita era stata dedicata a quello, e solo a quello. Due minuti dopo, rinunciò a lavarsi. Non c’era modo, no, era meglio togliersi il sapone di dosso e asciugarsi, e poi il sudore se ne era andato comunque. Avrebbe continuato a seguire il suo stile, affinandolo verso una specie di perfezione. La bellezza stava nel tentativo, nel non arrivare mai a un punto finale, non era forse così? No?

Quando uscì dal baglio, avvolto nell’asciugamano, con l’acqua gelida che sgocciolava sul tappetino, Charles ancora non sapeva, non aveva previsto, né nemmeno sognato o immaginato il suo destino. Come avrebbe potuto?

Più tardi, nel corso di un’intervista, quando la giovane giornalista gli chiese quale sarebbe stato il suo prossimo progetto, lui rispose che non era educato parlare di ciò che si trovava ancora in un processo di costruzione, visto anche che in quel momento non lo sapeva nemmeno lui.

Nemmeno al suo ritorno in Brasile, quando sfogliò le sue vecchie moleskine in cerca delle annotazioni di idee per romanzi e cancellò tutte quelle il cui sviluppo era inquadrabile nella sintesi del critico americano. Quello stesso conflitto, occultato dalle parole, era inevitabile, non era importante quale idea avrebbe seguito. Mankuviac non lo sapeva nemmeno in quel momento.

Leggi la fine del racconto in La pagina infestata dai fantasmi

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