Hara non aveva alcun complesso di inferiorità nei confronti del suo ufficiale. Bastava osservarli insieme per comprendere chi rappresentasse materiale militare autentico e predestinato e chi si limitava a ricavare colore e benefit dalla guerra. Scrupolosamente corretto com’era Hara nel suo comportamento esterno verso il suo ufficiale, non avevamo il minimo dubbio che dentro di sé si sentisse superiore. Mai aveva esitato nel prendere il comando di una situazione quando lo aveva ritenuto necessario. Lo avevo visto durante le ispezioni farsi largo bruscamente tra il comandante e le nostre fila, trascinare fuori qualcuno che aveva commesso inconsapevolmente una violazione del suo codice misterioso sul comportamento da tenere e, in un furore epilettico semi cosciente, colpirlo quasi a morte con tutto ciò che gli capitava a tiro, mentre il suo ufficiale, sconcertato, conduceva sé e la sua raffinata sensibilità doganale verso una zona più tranquilla della rassegna. No! Non era lui, ma Hara a comandarci con la sua volontà d’acciaio, arcaica, fredda, predeterminata e ben ponderata, dura tanto quanto il metallo della spada larga a due mani, eredità degli antenati, che gli pendeva dagli incongrui fianchi preistorici. Era lui, Hara, a decidere quel poco che avremmo mangiato. Stabiliva lui quando dovessimo andare a dormire, quando ci saremmo alzati, dove e come ci saremmo schierati in rassegna e cosa avremmo letto. Fu lui a ordinare che da ogni libro, tra i pochi in nostro possesso, in cui fosse contenuta la parola ‘bacio’ o in cui fosse citato l’atto di ‘baciarsi’, fossero strappate tali pagine offensive a mo’ di censura, per poi bruciarle pubblicamente in quanto contrarie alla ‘morale giapponese’. Lui a cercare di ‘purificare’ i nostri pensieri lasciandoci due giorni senza cibo, malgrado il nostro stato di tremenda malnutrizione, confinandoci in celle minuscole e sovraffollate e vietandoci perfino di parlare, in modo da poter contemplare meglio i nostri ombelichi europei, perversi e impuri. Lui a picchiarmi selvaggiamente perché non era spuntata una delle file di fagioli che aveva fatto piantare ai miei uomini, attribuendo il fallimento ai miei ‘pensieri sbagliati’. Lui a blaterare da ubriaco senza sosta con me di Greta Garbo e Marlene Dietrich, i cui volti lo tormentavano. Lui a chiedermi per ore dei Cavalieri della tavola rotonda, del ‘606’, del Salvarsan e degli ultimi ritrovati per curare la sifilide. Dirigeva il cambio delle nostre brutali guardie coreane, dava loro gli ordini in base al suo punto di vista e al suo umore e li rendeva dei convertiti radicalizzati, più fanatici del loro unico profeta. Lui a fare le nostre leggi, a giudicarci per le nostre infrazioni, a punirci e perfino ad uccidere alcuni di noi per averle violate.

Era davvero un ometto terribile, non solo nel senso reso celebre dal famoso Ivan, ma anche in un peculiare senso razziale e demoniaco. Possedeva quel genere di crudeltà che migliaia di anni di pochezza cercavano di infliggere alla vita, come vendetta e come compensazione per un’esistenza risultata tanto misera per così a lungo. La sua invidia dell’altezza e della statura era tale da averlo portato a un odio implacabile per entrambe e quando questo demone si agitava in lui – un tratto antico, insaziabile e assolutamente insopprimibile che viveva da qualche parte dentro di lui, con un’enorme autonomia e una volontà propria – lo portava a colpire il più alto tra di noi per il solo motivo di essere nettamente più alto di lui. Perfino il suo aspetto fisico era sia un rifiuto sia una forma di vendetta sulla normalità, un’esagerazione da commedia musicale e una caricatura della figura del maschio giapponese.

Era così basso da essere appena più alto di un nano e così largo da risultare quasi quadrato. Il collo era quasi inesistente e la testa, priva di nuca, sembrava praticamente appoggiata sulle spalle larghe. I capelli erano spessi e color blu notte. La loro trama era estremamente ruvida e dura e, tagliati corti, sembravano inflessibili e rigidi come i peli sulla schiena di un cinghiale, dritti all’aria. Le braccia erano eccezionalmente lunghe e sembravano pendere dalle ginocchia, di contro le gambe erano corte, estremamente spesse e così incurvate che i marinai tra di noi lo chiamavano ‘Il vecchio gambe a sciabola’. La bocca era ricolma di grandi denti gialli e sbiaditi, con elaborate protesi in oro, mentre il volto tendeva a squadrarsi e la fronte appariva piuttosto bassa e scimmiesca. Ciononostante, gli occhi erano straordinariamente raffinati e non sembravano aver nulla a che vedere con il resto dei suoi tratti e del suo aspetto. Erano eccezionalmente ampi e larghi per un giapponese e possedevano la luce, il lustro, il calore, la vitalità e la luminosità della giada cinese più raffinata. Era straordinario il modo in cui riuscissero a salvare quel terribile ometto dalla sua caricatura. Bastava guardarlo negli occhi per veder svanire ogni desiderio di deriderlo, perché ci si rendeva conto che quell’essere contorto andava oltre la comprensione degli europei e celava una persona coscienziosa e completamente disinteressata.

Il primo a farci notare i suoi occhi fu John Lawrence, che soffrì per mano di Hara più di chiunque di noi, ad eccezione di quelli che ne morirono. Ricordo perfettamente le sue parole un giorno dopo essere stato picchiato selvaggiamente in prigione.

“Ciò che non dobbiamo mai dimenticare di Hara”, disse, “è che non è una persona e, per quanto possa importare, non è nemmeno un uomo”. Aveva proseguito dicendo che Hara era il mito vivente, l’espressione della forma umana, la personificazione dell’intenso modo di vivere interiore che si estende fino all’inconscio e che mantiene unito il popolo giapponese, formandone e vincolandone il pensiero e il comportamento. Non dobbiamo mai dimenticare i duemilasettecento cicli completi di dominio della dea del sole insiti in lui. Era certo che nessuno potesse essere più devoto e sensibile di lui a tutti i sussurri impercettibili dell’anima razziale arcaica e sommersa del Giappone. Hara era abbastanza umile da accettare implicitamente le sollecitazioni del suo spirito nazionale. Era un campagnolo, semplice e incolto, con un’integrità primitiva non minata da un’educazione superiore e credeva fermamente a tutti i miti e le leggende del passato, in modo così profondo che non avrebbe esitato a uccidere per loro. Solo il giorno prima, Hara aveva raccontato a Lawrence di come in Manciuria la dea del sole avesse sollevato in aria un treno pieno di soldati che stava per attraversare un campo minato cinese non riportato sulle mappe, per poi riposizionarlo sui binari una volta al sicuro sull’altro lato.

“Basta guardarlo negli occhi”, aveva detto Lawrence, “non troverai alcunché di ignobile o di non sincero; solo una luce antica, rinvigorita, rivitalizzata e splendente. C’è qualcosa in lui che non posso non apprezzare e rispettare”.

Da “Il seme e il seminatore” di Laurens Van der Post

2 commenti su “Una sbarra d’ombra”

  • Buongiorno, innanzitutto complimenti e grazie per aver deciso di tradurre questo romanzo. È da anni che lo aspettavo, in quanto sono una grande estimatrice del film di Oshima e di Van Der Post.

    Volevo chiedervi, progettate di pubblicarlo anche in versione cartacea? Sarebbe davvero meraviglioso.

    Grazie in anticipo se vorrete rispondermi, tante care cose.

    Arianna

    • Ciao Arianna,
      mi scuso per il ritardo con cui ti rispondo, ma ho visto soltanto adesso il tuo commento.
      Al momento è disponibile solo l’e-book, ma speriamo di poter pubblicare in futuro anche una versione cartacea.
      La meritebbe davvero.
      Un saluto,
      Giacomo

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