da Ricerca del romanzo di Julián Fuks

¿Trajiste la llave?

gli domanda la portiera, mantenendo il tronco rigido e affrettando le gambette in direzione dell’uomo che si va a chiudere, taciturno, in ascensore. Impossibilitato a prevedere l’arrivo della donna e a presagire l’imminenza della domanda, l’uomo, con una borsa a tracolla, ha già iniziato il consueto movimento richiesto per chiudere le inferriate del vecchio ascensore. Le rivolgerà la sua attenzione solo più tardi, una volta terminato il procedimento brusco che ha avviato e dissipato il suo rumore intrusivo. Avendo stabilito tra di loro una duplice barriera di metallo, che non assomiglia a quella di una prigione solo perché è costituita da ferri intrecciati e non paralleli, l’uomo può infine rispondere: ma sceglie di non farlo. Si limita a muovere un’unica volta la testa dall’alto in basso e, senza comprendere la propria fretta, né l’abilità con cui mette in moto il macchinario, preme con forza esatta il pulsante del quinto piano.

L’espressione di spavento sul volto di lei si palesa e si sviluppa rapidamente in un intricato corrugamento della pelle che può solo indicare una maggiore attenzione e concentrazione. La fronte trema per l’avanzata delle sopracciglia, un occhio si stringe e ritaglia in basso e in alto la curva dell’iride, le labbra scollate lentamente si irrigidiscono. Prima che irrompa l’irrevocabile movimento ascendente, l’intero volto, scomposto dai ferri che lo attraversano, confabula affinché si intraveda un’evidente sorpresa. Quando il volto scompare, tocca al corpo minuto che lo sostiene subire un appiattimento drastico, fino a scomparire dietro la barriera di ferro, sempre più spessa tanto più si accentua l’inclinazione.

In pochi secondi si ritrova solo. Da qui può osservare il mosaico di luci e ombre provocato dallo spostamento di una delle grate sopra le altre. Da qui, tale geometria, fatta di una successione di triangoli, losanghe e un’altra forma geometrica il cui nome gli sfugge, sembra obbedire inevitabilmente a un sistema complesso, seppur ripetitivo, di variazioni. Da qui, è libero di supporre che, se si fosse dedicato maggiormente alle scienze esatte o se avesse più a cuore le vicissitudini dell’universo, ora sarebbe in grado di differenziare ciascuno dei princìpi e degli scopi di tale processo, suddiviso in cinque macro periodi ormai esauriti.

Ancora in balìa di tali calcoli, esce dall’ascensore e si ritrova davanti alla porta dell’appartamento, domandandosi se in un’altra epoca fosse già stata così, composta da venti riquadri bianchi di vetro che non lasciano filtrare alcuna immagine, solo un po’ di luce. Senza trovare una risposta nei suoi ricordi, affida alla mano il compito che le spetta e impugna la chiave, che resta immobile per un secondo in aria mentre lui, a causa di un istinto inutile, come per assicurarsi che nessuno lo segua, getta uno sguardo sopra la spalla destra. Si ritrova davanti una nuova porta da venti riquadri di vetro, la porta della scala, e il pensiero che gli è sovvenuto nell’ascensore acquista continuità: si è rinchiuso, in quell’intervallo di tempo, in un nuovo sistema di luci e ombre, riproduzioni e deviazioni rette dalla logica, una logica le cui norme non dominerà mai. Ognuno dei riquadri opachi in vetro si confronta con un altro e offre la propria quota di riflessione, in modo che il corpo di lui, preso al centro, diventi vittima di un numero infinito di ripetizioni, ora di fronte, ora di lato, che si limitano ad esistere e non si ripetono all’infinito solo perché dev’esserci tra le porte un disallineamento impercettibile. E l’uomo, oltre a non poter assimilare nella sua pienezza tale effetto, non può nemmeno attestarlo, dato che i riflessi scuri, sotto una luce così fioca, quasi non si vedono.

Il disagio prodotto da quella situazione è fin troppo sottile perché persista nel momento in cui la mano porta a termine il proprio compito e le gambe lo portano dentro. Ora, il sapere che custodisce di quello spazio non è riportato in alcun registro, se non in una breve serie di immagini che da molto tempo abitano la sua mente. In quell’appartamento bonaerense ha trascorso due anni remoti della sua infanzia, il che gli concede, tra altre minuzie che non desidera rivangare, una certa reminiscenza della sua architettura: è circolare – per quanto possa essere circolare un appartamento. Tale nozione non deriva da una precoce coscienza spaziale del bambino che è stato a quel tempo, bensì dal ricordo nitido di come trascorreva le ore, o il tempo che è necessario trascorrere affinché un bambino avverta il passare delle ore, correndo a tutta velocità per le varie stanze. Ricorda, e gli sembra strano che abbia potuto dimenticarsi qualcosa di così importante, che in una delle sue scorribande finì per scivolare e sbattere la testa contro uno spigolo del tavolo in marmo, incidente che si tradusse in ben tre punti di sutura sulla fronte. Essendo quello l’unico marchio della sorte impresso sulla sua pelle, l’unica cicatrice scavata nella sua carne, l’incisione deve avergli procurato il dolore più grande di tutta la sua vita. Come se fosse un altro, e non lui, a rendersi conto di quell’evidenza, l’uomo si vergogna per la carenza di eventi in grado di contraddistinguerlo, per l’assenza di avventura che caratterizza la sua esistenza, e finisce per arrossire.

Senza averlo pianificato, fa due passi a destra e compie una torsione del corpo che lo colloca di fronte alla porta di cucina, dove trova un interruttore da premere, quindi attende che l’adeguamento della vista faccia emergere lentamente il tavolo. Mentre avanza verso lo spigolo incriminato si domanda se, a livello microscopico, quasi oltre quello fisico, qualche traccia del suo sangue possa ancora trovarsi su quel marmo, avendo resistito alle successive pulizie, ai nuovi tagli e urti, ai nuovi scontri contro altri corpi, infine, al passare degli anni. Ma fin da subito l’interrogativo si dimostra privo di senso e l’uomo se ne disinteressa a metà strada, correggendosi con una nuova torsione del corpo e percorrendo lo spazio trasposto, fino a ritrovarsi di nuovo vicino all’ingresso.

Solo in quel momento prende l’iniziativa di appoggiare a terra la borsa che pesa sulle spalle e lo mantiene curvo, e il sollievo che prova dopo quell’atto è tanto piacevole quanto fugace. Senza quel peso a limitare i suoi movimenti, è libero di esaminare minuziosamente la casa come desidera, ma con fastidio nota in sé un ingiustificabile pentimento. Il pieno riconoscimento di quel territorio storico esigerebbe un minimo di organizzazione rituale, a cui ha trasgredito lasciandosi guidare dal suo impeto verso una stanza a caso. Senza altre opzioni se non, questa volta, quella di prendere il comando, scuote la testa per disfarsi del rimorso e avanza in senso contrario, immergendosi nell’oscurità della stanza successiva.

Senza poterlo prevedere, si lascia assorbire da un buio ancora più assoluto dei precedenti e si ritrova con le braccia inerti incollate al torso, disobbedienti a qualsiasi meccanismo che le liberi da tale condizione. È con determinazione che proietta le mani contro il vuoto, tastando la vacuità dell’aria fino a che entrambe accolgono, coincidenti, il tocco aspro e freddo di una parete. Le trascina lentamente lungo la superficie, aperte al massimo per ampliare le possibilità di contatto, ed è in quel gesto che arriva ad apprendere e dunque a comprendere la piacevole sensazione che gli provoca il suo attuale stato. Annullare gli altri sensi e confidare solo nel tatto, concentrando nella punta delle dita la sua capacità percettiva, è il rigoroso gradualismo e il rituale arcaico che prima bramava. Eppure, se si interrompesse per fare congetture, capirebbe quanto questa sua concezione risulti equivoca: l’essere stato privato della vista gli provoca un tale sconcerto da non riuscire nemmeno a rendersi conto che, fin dal primo istante trascorso all’interno di quell’appartamento, il suo olfatto ha lavorato sotto traccia, inviando al cervello un’infinità di elementi, certamente rilevanti, su quello spazio ancestrale che il proprio corpo pensava di non dover occupare più.

Forse è per questo che la paura accelera i battiti nel petto e fa sì che le mani transitino un po’ più anarchiche per la parete, alla ricerca di un interruttore, di qualche filo che conduca a una luce qualsiasi o di una maniglia che lo prepari a un altro ambiente, dove, chissà, il corpo potrà riacquistare la disinvoltura di prima. Ma devono passare ancora alcuni secondi prima che uno di questi elementi intercetti l’oscillazione delle dita, consentendo al buio di farsi più spesso, come se acquisisse solidità e si scagliasse contro gli occhi dell’uomo. Era ciò che gli succedeva in un passato lontano – la memoria si mette in moto all’improvviso – quando si liberava di uno stato precedente al sonno e si accorgeva che la madre, dopo averlo cullato per farlo addormentare, lo aveva abbandonato. L’agonia che sentiva è la stessa che sente ora e, anche se non è più un bambino e capisce bene che non c’è nulla che abiti l’oscurità, o comunque nulla che possa comportare un rischio, l’atteggiamento che assume per liberarsi dalla paura è sempre lo stesso: fa ruotare le mani allo stesso ritmo accelerato del cuore, facendosi al tempo stesso scudo contro qualsiasi assalto estraneo e cercando il modo di placare il turbamento. La tattica che non era mai fallita da bambino non fallirà nemmeno in questa occasione: una delle mani si imbatte infine in un filo e prosegue il cammino fino all’interruttore, da dove si libera un nuovo impulso che raggiunge la lampadina alloggiata nel portalampada, che a sua volta restituisce all’ambiente la calma derivante dall’assenza di ogni minaccia.

Poi, come se il tempo di un secondo prima fosse diventato improvvisamente remoto, l’uomo si ritrova fermo a piedi uniti, con il petto più gonfio del normale e le braccia penzolanti all’altezza delle tasche. Davanti a lui si profilano tre porte chiuse, ed è come se si trovasse in un insulso programma televisivo, stimolato a compiere una scelta da palmi muti e grida silenziose. Un paragone impreciso, sia chiaro, perché ignora il fatto di sapere con ragionevole certezza ciò che si trova dietro le porte. Quella di destra conduce a un breve corridoio che dà sulla camera grande – la principale riserva all’idea che si tratti di un appartamento circolare. Quella di mezzo è la porta della stanza dove trascorreva i momenti prima di dormire, godendosi la mano della madre accanto alla sua e, a volte, accarezzando il lobo dell’orecchio di lei – la più morbida e flessibile tra le sue accessibili. Quella di sinistra conduce a una terza sala e, subito dopo, all’ampio salotto e alla lunga sala da pranzo collegata alla cucina – questo il percorso esatto compiuto per ore dalle sue gambe, giorno dopo giorno, nel corso di due lunghi anni – alla fine, l’incidente che aveva subito durante il gioco, anziché spaventarlo, era servito soltanto ad accrescere il suo interesse per la stanza, seppur una fastidiosa prudenza lo obbligasse a ridurre l’impeto nel punto in cui era scivolato.

Titubando meno di quanto sono soliti fare gli sfortunati partecipanti a quel genere di programmi TV, sceglie la terza porta che, più pesante di quanto ricordi il suo pugno, oppone una certa resistenza ed esige che lui aggiunga allo sforzo anche il peso delle spalle, arcuando il tronco e attraversando lo stipite con l’atteggiamento di chi sa di poterlo fare. Non arriva a pensarlo, ma quell’atteggiamento ha origine meno dalla resistenza dei cardini e più da un’abitudine che era obbligato a preservare da bambino, in un tempo in cui quello era l’accesso a un mondo di cui gli adulti erano i frequentatori quasi esclusivi, con i loro vestiti immacolati e i bicchieri pieni a tintinnare per l’urto del ghiaccio contro il vetro sottile – un tintinnio specifico che, senza che lui lo sappia, riesce ancora a trasportarlo in quello spazio e in quel periodo.

Ad eccezione dei momenti in cui la casa era vuota e potevano installarsi al suo interno senza pudore, ai bambini toccava visitare quella metà dell’appartamento nella forma più solenne possibile, in modo ancora più discreto degli adulti, dato che questi di quando in quando erano propensi ad alzare i bicchieri e la voce, per spavento, sorpresa o riso. È con una sobrietà anacronistica, dunque, che giunge dall’altro lato, dove può osservare lo scenario grazie alla luce notturna che filtra dalla strada, attraversa due finestre e due tendine e si scontra debole contro i volumi.

È oscuro il paesaggio che si presenta alla vista e, per la prima volta, si rende conto della precisione di quella parola: l’associazione di quella caratteristica allo spavento, o alla minaccia stessa, non proviene dalla dose di oscurità che suggerisce, bensì dalla necessaria esistenza di una luce tentennante che permette il bagliore della superficie degli oggetti, ma mai di ciò che sta sotto, dietro o che risulta – precisamente – da essi oscurato. Ha davanti a sé una vecchia scrivania, un piccolo cassettone, il pianoforte verticale, tutti grandi pezzi di legno, i cui solchi la luce svela, benché sprovvisti di gambe o appoggi che li sostengano. Sotto di loro il buio è imperscrutabile e di nuovo guadagna solidità, come se fosse costituito da qualcosa al di là delle gambe o degli appoggi, come se quel qualcosa corrispondesse a un pericoloso potere impossibile da rivelare. È conscio dell’infantilità del timore che lo opprime, in veglie interminabili ha appreso ad affrontare quelle minacce immaginarie, ma non può nulla se non soccombere alla stessa reazione del passato: lanciarsi. Affretta i passi e accorcia la visita, arrivando alla sala senza fermarsi ad accendere la luce e senza soffermarsi come ha fatto in altri ambienti.

Ora si sta lasciando trasportare, il collo rigido gli impedisce qualsiasi sguardo che si allontani da un asse centrale, ma l’attenzione è incapace di trascurare gli oggetti che si annunciano nella periferia della visione: un divano e due poltrone che sa essere di velluto rosso, un tavolino su cui sono impilati giornali e riviste, un camino che anticipa un ampio tunnel che ha sempre temuto, candelieri, ornamenti, tende e due grandi ritratti appesi al muro, ritratti che, distorti dall’angolazione e dalla fretta, acquisiscono contorni più imprecisi e sinistri. Dietro una tenda pensa di aver scorto un volto e viene assalito da un vecchio dilemma, indeciso tra scrutare il telo tumefatto per assicurarsi di ciò che non ha visto, o voltare lo sguardo e affidarsi alla pacificazione offerta dalla mente razionale. Per più di un secondo mantiene lo sguardo sul tessuto, timoroso di avvicinarsi e analizzare il volume dubbio, e senza arrivare a un giudizio dà continuità ai passi compiuti, pur essendo ancora cosciente di essere turbato da qualcosa. Proprio come la linea invisibile che i suoi piedi vanno tracciando sul pavimento, le pareti presentano una curvatura accentuata verso sinistra e impediscono che da qualunque punto della sala sia possibile vederne la totalità, pertanto agli occhi di chi la occupa ci sarà sempre un angolo cieco: al percorrerla da un estremo all’altro, una nuova parte finirà sempre per spuntare gradualmente, mentre un’altra si nasconderà dietro le spalle per poi svanire, e l’occupante, intimorito, potrà avere l’impressione che qualcosa gli stia fuggendo – in questo caso, in direzione della sala da pranzo.

Qui, ancora una volta, lo slancio di una forma nera e sfuggente lo obbliga a interrompere il tragitto, prima di potersi infine arrendere al capriccio di accelerare il passo. Nella parete anteriore, che mostra uno specchio, un nuovo volto si è palesato come un’ombra inattesa, sparendo e riapparendo quando lui gli si è posizionato davanti, ad angolo retto. Verificando che in quello stesso istante tutto intorno a lui è immobile, facendo ipotesi a partire dal silenzio che invadeva e invade le sue orecchie – un silenzio ancora più evidente in quanto privo del trascinare delle scarpe sul tappeto – può soltanto concludere che si è trattato del suo stesso riflesso, che lo ha turbato solo perché non aveva notato la presenza dello specchio. Ipotizzando che la figura di adesso, somigliante a quella di prima, sia formata da una sezione del tronco umano che si origina all’altezza dell’ombelico, è facile trovare una giustificazione per il fatto di non aver previsto la scena: un bambino non sarebbe riuscito a vedersi in quello specchio, essendo per lui il riflesso limitato al lume di varie candele e al soffitto bianco – è naturale che non gli abbia dato importanza e che non faccia parte dei suoi sparuti ricordi.

Ma non ci riesce. Immerso in una precisa proporzione di luce e ombra, vittima della confusione delle suole sul tessuto ruvido, invaso dall’umidità e dalla polvere che si uniscono a odori antichi e già arresosi a gesti non raccontabili e ai comportamenti di un altro tempo, nessuna razionalizzazione gli risparmierà le palpitazioni nebulose che si succedono sul suo corpo. Abbandona dunque la contenzione che ha sempre ritenuto un tratto distintivo del suo carattere, abbandona l’autocritica che blocca le sue azioni intempestive, ignora i pensieri più disordinati che si ostinano a farsi strada nella sua mente e si mette a camminare a passi rapidi, spingendo la spalla contro la porta che si presenta a sinistra, con gli occhi fustigati dalla luminosità della cucina, calcolando per puro istinto la decelerazione richiesta al passaggio rasente al tavolo, raccogliendo, senza spostare i piedi, la borsa caduta, arrivando nella sala dove prima il suo corpo aveva penato a trovare l’uscita e aprendo infine la porta di mezzo, che forse sarebbe stata quella più indicata.

In un’oscurità che non saprebbe definire se nuova o vecchia, si limita a posare la borsa a terra senza aprirla, ad alzare la coperta del letto che intuisce trovarsi a fianco e a salutare la presenza di lenzuola che la frizione delle dita finisce per giudicare pulite. Togliendosi le scarpe allo stesso ritmo in cui si libera di ciascuna manica della giacca, sostituisce gli indumenti con il varco che si è aperto tra le lenzuola del letto e consegna il collo ancora rigido al cuscino. Quando il buio inizia a guadagnare solidità e le mani pressate accanto al corpo segnalano l’assenza di altre mani o di qualsiasi lobo, quando diventa indubitabile il fatto che il suo alito è l’unico calore in quella stanza, tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e lasciare che l’oscurità si popoli di altri fantasmi inoffensivi, frammenti di ricordi che danzano e non si lasciano afferrare, labirinti di immagini in cui si va mescolando fino a non fare più ritorno.

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