Riportiamo un estratto dal racconto Fame, scritto da Ariadna Castellarnau e tradotto dallo spagnolo da Vincenzo Barca:

Scende la sera e non hanno ancora deciso chi dei due mangerà l’ultima pesca sciroppata. È una decisione importante, non solo perché è l’ultima ma perché hanno stabilito che, una volta finito il barattolo, si lasceranno morire di fame.

Rita fa ballare la pesca sulla punta della forchetta.

  • La mangi o no? – chiede lui.

  • Non so. Preferisci mangiarla tu?

  • Non importa chi la mangia. È solo una cosa simbolica.

  • Morire di fame non ha niente di simbolico.

  • Ci stai ripensando?

Lei non risponde.

  • Abbiamo fatto un patto – torna alla carica lui -. E i patti vanno rispettati.

  • Lo so.

  • Che cosa sai?

  • Quello che succede dopo.

  • Dopo non succede niente. Dopo moriamo.

  • Lentamente, però.

L’unica luce che c’è in cucina viene da una candela che sta per spegnersi. Hanno tappato le finestre con dei cartoni per non essere visti da fuori, ammesso che qualcuno possa vederli da fuori.

Per Rita è una fortuna non avere la vista sulla vallata, la desolazione e i roghi ancora accesi sulle montagne, dove ci sono i paesi che hanno attraversato prima di arrivare a casa e la cenere che il vento spinge e trascina e che rendono ancora più cupa la luce ramata del tramonto.

  • Quanto ci mette un essere umano a morire di fame? – chiede Rita.

  • Dipende dal peso. Comunque, all’incirca tra i sessanta e i novanta giorni.

  • Come fai a essere così sicuro?

  • L’ho letto da qualche parte.

  • Fa male morire di fame?

  • A un certo punto non fa più male.

  • Quando?

Lui le avvicina il barattolo.

  • Quando muori. E ora mangiala.

Rita affonda la punta della forchetta nella polpa della pesca e se la porta alla bocca.

Quella sera, dopo aver gettato il barattolo vuoto nella spazzatura, dove si ammucchiano altre scatolette e cartoni del latte schiacciati, si stendono sul letto che hanno improvvisato con fogli di giornale sul pavimento della cucina.

Rita si toglie il maglioncino di lana. Strofina il suo corpo contro quello di lui. Questo è il momento del giorno che preferisce. Quello in cui sono al buio e lei può fantasticare che si trovino in qualunque altra parte del mondo. In casa di lui o in città, nel suo piccolo appartamento da single o in una tenda da campeggio vicino a un fiume, un fine settimana d’inverno.

Quando termina dentro di lei, lui si lascia cadere sui fogli di giornale, che scricchiolano sotto il suo peso.

  • Meglio delle altre volte, no?

  • Piuttosto meglio, sì – risponde lei.

  • Hai la pelle bianchissima.

  • Da bambina non potevo prendere il sole perché…

  • Me lo hai detto già.

  • Ma non ti ho raccontato la storia completa.

Rita si gira di spalle in modo tale che lui le cinga la vita e accosti la bocca alla sua nuca, respirandole addosso. Dorme pensando che tutta questa storia è soltanto uno scherzo. Una specie di prova che loro stessi si sono imposti per dare di nuovo valore alla vita che hanno. Arrivare all’estremo, al punto di non ritorno, per poi tornare al presente rivitalizzati e imparare ad apprezzare la propria solitudine e la fame.

La versione integrale del racconto è contenuta in Finzione estrema – Traviesa 3.

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