di Gonzalo Baz

Ho trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza in un complesso di grandi edifici in cui non sono mai tornato, ma che mi si ripresenta in diversi modi. A volte ripenso a quel complesso residenziale, i nostri genitori, i prestiti del Banco Hipotecario, la scelta della scuola in cui andare, le grandi assemblee per decidere il futuro comune. In quel modo per me inaccessibile. Posso anche rievocare il modo, vissuto o inventato, in cui io, Sami e Lucas camminavamo in quegli anni lontani, quelli delle crisi suicide di mia madre, dei giochi pericolosi e delle prime letture. Ho molto da raccontare su quel periodo, ma preferisco scrivere dei ricordi che continuano a tornare con violenza, che irrompono quando non li cerco, che rimbombano come un’esplosione lontana che mi paralizza mentre l’onda d’urto si avvicina e, da un momento all’altro, vengo stordito da un ammasso di immagini a cui non sono mai riuscito a dare ordine: le guardiole della polizia in fiamme, l’erba del campetto da calcio congelata, il suono di un ascensore impazzito che fa su e giù all’alba. A volte sogno di sorvolare la notte tra edifici di argento e acciaio e vedo noi, con i giubbotti e le dita irrigidite dal freddo, che proviamo a suonare una chitarra. Il complesso, con la sua forma spettrale, ci guarda dalle finestre degli ultimi piani, quando crediamo che dormano tutti. Quel residuo inutile, ricolmo di malvagità.

Certi ricordi mi abitano e mi costringono, ancora oggi, a frugarmi nelle tasche in cerca di cose da gettare via, per strada, quando vedo una volante che si avvicina. Sono anni che non porto niente con me. Solo caramelle, scontrini di acquisti inutili, portafoglio e telefono. Dal breve scavo archeologico nelle mie tasche emergono ricordi fossilizzati: granelli di tabacco, frammenti di un tempo in cui compravamo due sigarette sfuse per un peso. Marche sconosciute, macchie di umidità sulla carta e anelli di polvere da sparo chiaramente visibili. Tutti i giorni attraversavamo il quartiere per andare a comprarle al chiosco. Tornavamo all’Infinito e le fumavamo mentre i cani giocavano nel campetto. Non riesco a ricordarmi di ciò di cui parlavamo, pagherei per ascoltare le nostre voci a quel tempo. Passavamo tutto il tempo fuori, come se stare a casa significasse sprecare le ore. Evitavamo i nostri genitori e quelli degli altri, e a volte ci evitavamo anche fra di noi, nel lungo vagare tra i diversi passaggi del quartiere, persi in idee apocalittiche, in presagi fumosi.

Traduzione di Claudia Rolandone. Per leggere il resto, fai clic su I passaggi comuni

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