A seguito della pubblicazione de “I passaggi comuni“, pubblichiamo un’intervista esclusiva all’autore Gonzalo Baz, a cura della traduttrice, Claudia Rolandone:

Il libro ci fa entrare nella memoria del protagonista, in un modo che sembra molto intimo e personale, contiene forse elementi autobiografici? Ci può dire qualcosa di più su come è nato e come si è sviluppato il romanzo?

Si può dire che Los pasajes comunes è un libro autobiografico, dato che il motore del racconto sono i ricordi di un narratore con una biografia molto simile alla mia. Sono però presenti molti elementi di finzione che la rendono una scrittura autobiografica un po’ allucinata o alienata, il tipo di narrativa che generalmente mi interessa, quella creata a partire dai miti familiari o delle comunità e dei quartieri: fraintendimenti, esagerazioni, invenzioni deliberate che attraverso la ripetizione diventano realtà. È un libro su come si costruisce la memoria collettiva di un quartiere. Molti degli eventi del libro sono cose successe nel quartiere in cui ho trascorso l’adolescenza, almeno stando a quanto mi hanno raccontato.

Nel libro la città, e in particolare il complesso, hanno un ruolo chiave e sembrano essere un personaggio della storia, con un proprio sviluppo, e non fare solo da sfondo. Pensa che vivere a Montevideo abbia influenzato la sua scrittura?

Sì, a partire dal mio libro precedente, Animales que vuelven, lo spazio urbano è molto presente e legato all’esperienza dei personaggi. In questo romanzo mi interessava che il disegno del posto e la sua storia fossero centrali tanto quanto chi lo abita. Gli edifici hanno i loro conflitti e i loro drammi, sono un attore in più nella trama, vogliono cose che spesso entrano in conflitto con gli interessi degli abitanti. E anche dal punto di vista dei personaggi c’è una relazione di intimità con i luoghi; il complesso non è solo lo scenario in cui si svolgerà l’azione, quanto piuttosto un modo di vedere e sentire. L’azione non è altro che l’effetto di quello che i personaggi percepiscono e sentono.

Il romanzo contiene numerosi riferimenti a elementi culturali tipici dell’Uruguay e fa un uso della lingua molto libero e naturale, temeva che questi elementi si perdessero nella traduzione? Crede che sia successo?

Mi sembra quasi inevitabile che la traduzione modifichi, almeno in minima parte, il senso di alcune frasi o immagini, che spesso lo acquisiscono unicamente in base al contesto culturale. Ma non ho avuto la chiara impressione che sia successo nella traduzione di questo romanzo; credo che si sia cercato il modo migliore di mantenere il significato delle cose.

Nel libro si menziona l’idea del protagonista di tradurre un libro molto legato al suo contesto di produzione, História de meu bairro, che rapporto ha lei con la traduzione editoriale? Legge molta letteratura tradotta? Il fatto che sia stata la sua opera a venire tradotta in un’altra lingua ha cambiato la sua prospettiva?

Non mi considero un traduttore, nonostante abbia tradotto alcuni testi dal portoghese. Ho vissuto in Brasile qualche anno e lì ho conosciuto tutta una tradizione letteraria che per certi versi mi ha formato. Avere letto molto in portoghese ha dato alla mia scrittura un tono o una musicalità diversa. Trovo interessante questo tipo di azioni di una lingua su un’altra. Leggo tanta letteratura tradotta. Mi interessa molto sapere cosa viene scritto in altre parti del mondo e, siccome non sono poliglotta, le traduzioni sono l’unico strumento che ho per avvicinarmici. Los pasajes comunes è il primo dei miei libri che viene tradotto in un’altra lingua, se non consideriamo alcuni racconti brevi, che sono stati tradotti in inglese e portoghese. Quando si legge il testo tradotto non si può evitare di percepirlo come estraneo, non ci si rivede completamente, ma (nel migliore dei casi) ci si rende conto che qualcosa della propria scrittura rimane integro, qualcosa con cui si può sentire un legame.

Sebbene il libro sia così strettamente legato all’Uruguay e a Montevideo si nomina l’Europa, in particolare la Germania, che rapporto ha lei con l’Europa?

La relazione che ho con l’Europa è quella di molti uruguayani, siamo nipoti o pronipoti di europei. Nel mio caso di italiani e spagnoli, immigrati arrivati per la maggior parte nel XX secolo. Oltre a questo non ho alcun legame con l’Europa; non ho neanche richiesto la cittadinanza come hanno fatto molti uruguayani durante la crisi, quando sono stati costretti a emigrare per guadagnarsi da vivere in diversi paesi europei. Ho messo piede in Europa per la prima volta l’anno scorso, in occasione della pubblicazione di Los pasajes comunes in Spagna. Una parte significativa della mia formazione di lettore e scrittore, però, deriva da varie tradizioni europee. Non solo perché ho letto autori tedeschi, inglesi, francesi, italiani o dell’Europa dell’est, ma anche perché per molto tempo le uniche traduzioni in spagnolo arrivavano dalla Spagna. Per fortuna le cose stanno cambiando e oggi possiamo leggere traduzioni latinoamericane; credo che questo abbia portato un cambiamento.

Lo stile del romanzo è molto sintetico e questo sembra riflettersi anche nella struttura dei capitoli, molto brevi e nettamente separati. Quanto è importante lo stile nella sua opera?

Non do molta importanza allo stile. Ogni opera ha la sua ricerca. In Los pasajes comunes ho optato per uno stile frammentato e ripulito dai dettagli perché il romanzo scorre un po’ come una successione di ricordi disordinati, intramezzati da altre versioni degli stessi fatti o dai meccanismi creativi della memoria stessa. Non è uno stile definitivo, era legato alla ricerca del modo migliore per raccontare la mia storia; probabilmente la prossima comporterà altre ricerche.

Nel libro sono presenti molti cambi di personaggio, tempo e luoghi tra i capitoli, crede che ciò possa rendere il romanzo meno accessibile per il pubblico? Si è posto questo problema mentre lo scriveva?

No, non ci ho pensato mentre lo scrivevo. Forse è così. Non è un romanzo con una narrazione che ti trascina verso una trama o un arco narrativo. Credo che questo possa renderlo più difficile da seguire per qualcuno, ma, in generale, penso che sia un romanzo molto accessibile.

La copertina dell’edizione originale e di quella spagnola sono molto diverse, ci può parlare di come viene scelta l’illustrazione di copertina e del ruolo dell’autore nel processo? Cosa ne pensa delle due copertine? Ce n’è una che le piace di più?

Entrambe le copertine sono state scelte dagli editori e dai grafici. Mi piacciono molto tutte e due ed evidenziano aspetti diversi del romanzo. In quella di Criatura editora, che è un’illustrazione di Nat Cardozo, si pone enfasi sulla dimensione cosmica del luogo, collocando il complesso su un insetto. Per quella di Paripé books è stata scelta una foto del complesso Abraxas di Parigi, che mi sembra ugualmente interessante perché rappresenta qualcosa di essenziale di questo tipo di quartieri, qualcosa che hanno in comune tutti i complessi abitativi in qualsiasi parte del mondo, l’intenzione di organizzare lo spazio in base ad alcuni criteri storici.

Infine una curiosità: su internet non si trovano informazioni sulla sindrome di Euskirchen, citata nel romanzo, è una malattia reale o inventata?

La sindrome di Euskirchen è una malattia inventata da me, ma per farlo mi sono basato su testimonianze reali degli abitanti di Euskirchen, che mostravano un certo terrore nei confronti del materiale bellico ritrovato nella loro città, soprattutto dopo l’esplosione di una bomba della Seconda Guerra Mondiale sotterrata, che aveva causato un morto e diversi feriti. L’idea che qualcosa del passato potesse essere una minaccia nel presente mi è sembrata potente e per questo l’ho inclusa nel romanzo.

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