Tutto regolare, a bordo della Diamante, fino al terrificante “quarto d’ora” spaziale in cui si verificò il disastro.

Il comandante Leòn entrò per primo nella cabina-infermeria. Dopo avere salutato con un cenno il dottor Grumani, co­minciò ad arrotolarsi la manica per la misurazione della pres­sione. Il dottore rispose al saluto con un sorriso stereotipato dall’abitudine. I pochi uomini che costituivano l’equipaggio dell’astronave erano sempre in stretto contatto. Il controllo medico faceva parte della routine quotidiana.

Mentre il comandante si avvicinava al lettino, scorse un mo­vimento brusco, inaspettato. Stranamente, il dottor Grumani aveva lasciato cadere l’emodinamòmetro, e si era rattrappito nelle spalle, portandosi le mani all’altezza del cuore.

«Dottore, che le succede?»

Il medico annaspò in avanti, per istinto, mentre, con una di­stensione-contrazione delle dita, tentava di aggrapparsi a un sostegno che non riusciva a trovare. Quindi rotolò sul pavi­mento. I suoi occhi, rivolti a Leòn, si immobilizzarono, sbia­diti e acquosi, in una disperata richiesta di soccorso.

Il comandante si chinò sul medico e subito si rese conto di non essere in grado di dargli aiuto. Allora lanciò un ordine secco al di là della porta, verso gli uomini che, nel vestibolo, attendevano il loro turno. Intanto, si sforzava di sollevare il dottore che si era raggomitolato, come accartocciato su se stesso, rantolando.

Entrarono tre uomini in tuta-divisa spaziale. Il comandante raggelò la propria e la loro apprensione con un imperativo funzionale: «Aiutatemi a mettere sul lettino il dottor Grumani».

Subito dopo, rivolse ordini diretti: «Valdemaro, prenda l’ina­latore. Lei, Manfred, tenti la riattivazione cardiaca».

Il medico venne subito sottoposto alla duplice e diversa azio­ne dell’inalatore di ossigeno e dell’attivatore di impulsi.

Ma dopo alcuni minuti, la pelle del viso impallidita fino al bianco-avorio e la temperatura degradante del corpo dimo­strarono l’inutilità di ogni tentativo.

Il biologo Manfred appoggiò l’orecchio sul petto del medico. «Non si capta nessun battito cardiaco. Ma come mai il pace­maker si è bloccato? È un modello collaudato in tanti viaggi nello spazio, e non solo da noi europei».

Valdemaro, ingegnere radiotecnico, commentò: «Avrebbe dovuto essere perfetto, sicuro al cento per cento».

«Lo portava da vent’anni, e mai un guasto», aggiunse l’astrofisico Frank.

Le parole che il comandante articolò a mezza voce, «È quello che dico e che mi domando anch’io», ben lontane dalla for­zata freddezza di prima, rivelavano la sua perplessità sull’iden­tificazione della causa che aveva provocato il blocco del con­gegno.

I quattro astronauti, attorniando il lettino, osservavano quello che, ormai, era il cadavere del dottor Grumani, cosmomedico di vaglia oltre che loro amico e consigliere. Azzardavano qual­che ipotesi sulle origini dell’incidente mortale, quando un uomo arrivò e si arrestò sulla soglia della porta spalancata: ansimava, come se avesse corso. La sua tuta-divisa spaziale, priva di gradi, dichiarava il suo rango: marinaio semplice. L’uomo restava a labbra sigillate, ma gli occhi, di un nero carbon-coke, luccicavano più nel normale e saettavano fuori paura e, insieme, stupore.

«Che c’è, Untertan?»

L’uomo s’irrigidì. Con un automatismo più meccanico di quello di un subalterno davanti al superiore, batté forte i tacchi mettendosi sull’attenti, prima di annunciare: «Co­mandante! Un generatore di energia, quello centrale, si è bloccato».

Un brivido guizzò sulla nuca di Leòn. Prima, si era bloccato il pacemaker, adesso, addirittura, un generatore di energia. Che cosa stava succedendo?

Rialzò con decisione le spalle e si scostò dal lettino: «Vengo subito con te, Untertan». Ma il misterioso pericolo lo solle­citava verso ipotesi diverse: «Lei, Manfred, controlli tutti i computer. Valdemaro, stacchi i contatti dell’inalatore e del­l’attivatore e corra alla sala-trasmissione: si tenga pronto per l’S.O.S. E lei, Frank, si porti all’osservatorio. Mi faccia sa­pere se qualche astronave o qualche corpo sconosciuto è in avvicinamento».

Tutti abbandonarono in fretta l’infermeria, consapevoli che lo strano, duplice blocco era un sintomo di anormalità da chiarire e combattere al più presto.

Il comandante avanzava a lunghi passi concitati, seguito da Untertan che intervallava una rispettosa distanza di oltre un metro. Quella deferenza, incongrua all’eccezionalità della si­tuazione, sembrava indotta piuttosto che naturale.

«Se si bloccano altre macchine prima che scopriamo la causa dell’anomalia», meditò a voce alta Leòn, «la Diamante andrà in sospensione cosmica e precipiterà chissà dove». Non ag­giunse altro, occupato a montare e smontare congetture. Untertan taceva: lui non aveva diritto a opinioni. Raggiunsero il livello B ed entrarono nella sala dei generatori. Dei tre impianti, quello centrale, al momento privo di spie luminose, aveva assunto l’aspetto di un ammasso cieco e inutile. «Untertan, prova con l’autògeno», ordinò Leòn.

Il marinaio s’infilò nel corridoio e arrivò alla nicchia in cui stava installato il macchinario. Intanto, il comandante esami­nava il generatore di energia e tentava di imprimere impulsi, azionando le leve sussidiarie.

Fu allora che uno sbalzo di corrente fece salire di colpo i volts a un livello altissimo, una scarica di tale potenza che il motore del generatore saltò, fiammeggiando verde-viola. Leòn cadde sul pavimento proprio mentre Untertan rientrava. Vedendo le fiammate, il marinaio saltò all’indietro, corse al cono antincendio e lo attivò. Un fiotto bianchissimo sboccò dal tubo, schizzando contro il generatore e rivestendolo rapi­damente di schiuma. Il corpo incenerito del comandante restò a giacere sul pavimento, e fu ben presto inondato dalla sba­vante colata artificiale che Untertan faceva eruttare senza risparmio.

Quando gli parve che la schiuma avesse domato il potente e indecifrabile nemico, staccò l’anti-incendio, fece calare la por­ta stagna e fuggì lungo la serpentina del corridoio, chiamando a voce squarciata gli altri.

«Ingegner Valdemaro, dottor Manfred, professor Frank!» Ma l’astrofisico Frank non avrebbe potuto udire il richiamo nemmeno se si fosse trovato nelle vicinanze. Era stato fulmi­nato mentre avviava il radar-telescopio elettronico, così che non aveva nemmeno potuto captare sullo schermo la massa abnorme dell’astronave sconosciuta entrata nel loro campo. Da quel corpo alieno, veniva messa in funzione la micidiale arma invisibile, a energia elettromagnetica.

Manfred e Valdemaro, al termine della serpentina, strisciava­no su per la scala elicoidale. Manfred scorse il marinaio che correva: «Untertan, alla scialuppa!»

Untertan si precipitò dietro di loro e s’insinuò su per l’angu­sta scala che li introdusse direttamente al modulo di emer­genza, incorporato nell’emisfero superiore dell’astronave.

«La Diamante è incappata in una tempesta elettromagnetica anòmala». Manfred era convinto che si trattasse di un feno­meno cosmico naturale, per quanto irregolare. «Adesso, c’è inversione di polarità, e i motori stanno distruggendosi. Sbri­ghiamoci!»

Valdemaro, a denti stretti, domandò: «E il comandante? E Frank? Untertan, devi avvertirli».

«Il comandante è stato incenerito dalle scariche del genera­tore. Corro a cercare il professor Frank». Il marinaio si pre­cipitava a obbedire al radiotecnico, ma la voce imperiosa del biologo lo costrinse ad arrestarsi.

«No. Resta qua. Non possiamo perdere un secondo. Mori­remmo tutti quanti. Aiutaci ad azionare la scialuppa di salva­taggio. I computer si sono smagnetizzati. Le memorie si sono cancellate dai nuclei e la scialuppa non può funzionare ciber­neticamente. Occorre metterla in moto manualmente».

La tempesta magnetica, adesso di tipo oscillante, emessa dal­l’astronave aliena, imperversava nello spazio attorno alla Dia­mante e la coinvolgeva nel pazzesco ritmo d’inversione con­tinua: le macchine, quelle che non erano ancora andate in fu­sione o in fiamme a causa delle scariche o dell’inversione di polarità, funzionavano alternativamente in un senso e subito dopo nel senso opposto, con un crescente ravvicinamento di tempi, così che gli avvolgimenti incominciarono a bruciare.

I tre astronauti lavoravano con frenesia, lottando contro il tempo e contro l’acre fumo nerastro che cominciava a inva­dere anche il modulo di emergenza. Li aiutava la loro abilità tecnica e li spronava l’impulso alla sopravvivenza. Quando infine la scialuppa, con un balzo scattante, sussultò fuori dal gigantesco incastro dei perni, fu chiaro a tutti e tre che si era disinnescata e che, mediante il razzo chimico, si sarebbe po­tuta proiettare fuori dalla Diamante.

Semiavvolti dalla nuvolaglia fumosa, s’inerpicarono su per l’elevata scaletta metallica, che immetteva nella scialuppa. Manfred fu il primo a raggiungere il gradino più alto, paralle­lo al piano di base del veicolo, e scomparve all’interno.

Alcuni scalini più in basso, si trovava Untertan, al quale Man­fred aveva ordinato: «Sta’ dietro a me. Se scivolo, sorreggi­mi».

Valdemaro era l’ultimo. Semiaccecato dal fumo e scosso da un accesso di tosse, posò malamente un piede e rovinò giù. Tentò di rialzarsi, ma restava semi-afflosciato sul pavimento. Cacciando fuori colpi di tosse e maledizioni, torse in su il collo: «Untertan! Vieni qua!». Più che un’invocazione di aiuto, era un ordine.

Untertan, da sotto il casco antimagnetico, credette di avere udito qualcosa. Scrutò in basso, tra il fumo. Non riuscì a ve­dere, ma percepì il proprio nome gridato. Ridiscese e andò a sollevare il radiotecnico.

Appena fu in piedi, Valdemaro crollò di sbieco sul pavimen­to: «Mi si è spezzata una gamba! Non riesco a reggermi. Un­tertan, trasportami tu!»

Il marinaio obbedì. Si piegò sulle ginocchia, tirò su il ferito e se lo caricò sulle spalle con lo sforzo con cui si sarebbe cari­cato un contenitore stipato di rottami di ferro. Semicurvo sot­to il peso, arrancò su per la scaletta mentre, nell’interno della scialuppa, la voce di Manfred si arrochiva in un incitamento sgretolato dal terrore e dalla rabbia: «Ma che bestiate state combinando, lì fuori? Sbrigatevi! Sto già preparando l’accen­sione».

Untertan continuò a salire, ansimando.

Superò l’ultimo scalino e strascicò dentro la scialuppa. Sca­ricò Valdemaro su un sedile, e lo lasciò a stringere i denti, a mugolare e a guardarsi attorno con spasimo e con impotenza. Si buttò a manovrare i comandi per il ritiro della scaletta e per la chiusura del portellone.

«E allora, fatto?», sfuriava Manfred. «Ma quanto vi ci vuole, figli di quella strafottuta puttana! Volete crepare qua dentro?» Non si era potuto accorgere della caduta di Valde­maro né delle fatiche di Untertan.

Appena udì i fragorosi scatti della sicura innescata che sigilla­vano ermeticamente il portellone, Manfred azionò le leve del razzo a miscela ipergolica: l’idrazone e l’acido nitrico, al solo contatto, s’incendiarono e provocarono la spinta. La scialup­pa si strappò via dal corpo dell’astronave e si proiettò nello spazio.

Quella spinta fu sufficiente perché la scialuppa sbucasse fuori dalla tempesta elettromagnetica scatenata dall’astronave sco­nosciuta. Lanciata nel vuoto, la cosmobarca di salvataggio fi­lava via dalla zona del disastro in cui la Diamante, avvam­pando nell’interno, si autodivorava.

In quell’incendio dilagante, gli effetti magnetici influirono anche sui corazzatissimi impianti per la gravità-artificiale del­l’astronave, e gli oggetti presero a levitare, privi di peso.

Il cadavere del dottor Grumani si distaccò dal lettino e si li­brò nell’ambiente, ondeggiando con la mobilità di un telo di plastica abbandonato al vento terrestre. Il lenzuolo, il cusci­no, il lettino a rotelle, il tavolino, lo stetoscopio, l’emodinamòmetro volteggiavano per l’infermeria non ancora invasa dalle fiamme.

Il corpo del comandante Leòn, semiavvolto dalla bava can­dida, oscillava all’interno della sala dei generatori tra uno sfarfallio di schiuma sfaldata e sfioccante, mentre l’astrofisico Frank si disfaceva in frammenti nerissimi che, come carboni senza peso, svolazzavano nell’osservatorio arroventato. Quando il rogo fu totale, la Diamante arse come una ma­stodontica fornace, fino a che si ridusse a un guscio svuotato, vagante nello spazio.

L’astronave aliena si allontanò dal luogo della battaglia, che aveva avuto un protagonista monologante e una vittima igna­ra perfino di essere stata considerata antagonista.

E la scialuppa, alla cieca e disperata ricerca della salvezza, fi­nalmente, finalmente!, avvistò sul radar un piccolo pianeta. I tre fuggitivi cominciarono a sperare, ricacciando indietro i terrificanti ricordi del disastro e sforzandosi di fare tacere il timore e l’incertezza degli eventi che avrebbero dovuto affrontare in quella terra ignota, forse abitata forse no.

«Untertan, tu scenderai per primo», decise il biologo.

«Sarà fatto, dottor Manfred». Untertan doveva obbedire, e basta.

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