di Cristina Judar

Ana, dodici mesi prima di compiere diciotto anni

Passata di mano in mano durante la lezione di biologia, la corazza dello scarabeo secco smentiva la tesi secondo cui solo l’uomo è capace di tali meraviglie nel campo del design. Di cosa fosse fatta non ne ero certa, ma la sua struttura solida e tangibile non poteva essere naturale, né frutto della mente di un esperto.

A differenza di quello che provavo nei confronti di Clark, non c’era repulsione o pietà, e quella era un’altra grande sorpresa di quel momento.

Riguardo Clark: una persona in miniatura imprigionata in un contenitore in vetro pieno di formalina, esposto in bella vista nel laboratorio della scuola, accanto ad altri barattoli.

Riguardo anatomia e destino: Clark era il protagonista, il centro dell’attenzione dei ragazzi che si sentivano in colpa per la sua inesistenza fluttuante al servizio delle nostre ricerche.

Riguardo me: in una delle mie versioni più conosciute, fingevo che Clark non mi interessasse anche se, di nascosto, avevo già osservato a lungo l’ex futuro uomo rosa dalle gambine rannicchiate. Con l’aula deserta, avvolta da una luce che mi proiettava in un’altra dimensione, immaginavo sorti virtuose per quella piccola massa di cartilagine, un tentativo frustrato di essere qualcuno, di indossare un paio di jeans, di avere un profilo sui social, di bere un drink, se fosse davvero sopravvissuto. In una nebbia contemporanea, si erano perse infinite possibilità. E il motivo per cui era stato abortito non si sarebbe mai saputo.

Riguardo lo scarabeo morto, duro e secco: era come se la natura avesse creato la sua personale versione di ciò che conosciamo come plastica. Per questo era tanto rassicurante quanto poteva esserlo un pezzo di plastica.

Tutto cominciò quella mattina, nel giardino di casa. Dopo la pioggia, l’erba moltiplicata in infinite gocce d’acqua, notai una pietra mai vista prima nell’angolino delle begonie che, se ripreso dall’alto, sarebbe sembrato più un cumulo di mele rosse. Avvicinandomi mi accorsi che era la tomba di un enorme insetto, girato sul dorso, vinto, brillante, nerissimo. Mi impossessai del gioiello.

Prendendomi una pausa da quella scena, con la realtà sospesa per una breve analisi approfondita, è facile dire che noi tre eravamo come intrecciati, più o meno così: (1) l’immagine di uno scarabeo morto, ridotto a una corazza dalla struttura esteticamente irresistibile; (2) la figura di Clark, che non aveva avuto l’opportunità di godere di nulla nella vita se non di un destino simile a quello dell’insetto: “morire per svolgere il ruolo di oggetto di studio per ragazzi di classe media”; (3) io, la ragazza di diciassette anni che non sapeva se voleva essere come lo scarabeo [memoria e forma] o come Clark [aberrazione e impossibilità]. Il dilemma era aperto.

Traduzione dal portoghese di Alessia Andreoli, Gaia Bortolin, Margherita Castellaro, Iole Falsone, Livia Natalucci, Arianna Paradisi. Per leggere il resto, fai clic su Donne che marciavano sotto il sole.

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