di Verónica Murguía 

(Traduzione di Caterina Camastra)

Erano con lui alla periferia della città, lì, nel luogo desolato dove trascorreva tutti i pomeriggi. All’inizio credetti che fossero suoi nemici, visto che era inginocchiato davanti a loro. Ebbi paura e volli correre per chiedere aiuto, ma davanti ai miei occhi increduli, Lot, che non si inginocchiava mai di fronte alle immagini degli dei, in ginocchio baciò loro le mani. I forestieri lo aiutarono a rimettersi in piedi e si chinarono su di lui. Parlavano tra di loro e non mi videro finché non furono più vicini.    

   Procedevano verso l’entrata della città. Erano più alti e più snelli dei leggiadri schiavi nubiani del re Bera, ma non erano neri come le pantere, bensì avevano la carnagione olivastra degli ebrei. Erano così somiglianti che pensai: sono fratelli gemelli. L’orlo delle loro tuniche rossastre sembrava galleggiare sulla polvere. Erano scalzi. Mio marito li teneva per mano come se fossero suoi figli, ma era, in mezzo a loro, un bambino canuto tra due colonne di porfido.    

   Forse erano i figli di Abramo, lo zio di Lot; mi rallegrai. Camminai in fretta, piena di gioia, guardando con diletto i loro profili giovani e severi. I riccioli scuri ondeggiavano nella brezza e le mani ariose, scurite dal sole, enfatizzavano parole che il vento portava via, e io non riuscivo a sentire. Affrettai il passo e interruppi la loro conversazione con la frase rituale di benvenuto:    

  “Siate benvenuti a Sodoma, parenti di mio marito.”   

   Lot impallidì e sul suo volto colsi un avvertimento. I due uomini girarono il viso verso di me. Erano ancora più belli da vicino, somiglianti, ma non identici.
 Sì, erano della stessa altezza e tutti e due possedevano la stessa grazia minacciosa, ma uno sembrava un giovane leone e l’altro era più simile a un’aquila. Le sopracciglia ad ala quasi si congiungevano sulla delicata radice del naso e c’era qualcosa di ostile nel disegno delle labbra.    

   Mi squadrarono con uno sguardo freddo come il bagliore di una stella riflessa sulla lama di una spada. Mi sentii stupida e maldestra: una schiava che fosse stata rimproverata per aver parlato senza permesso in presenza dei padroni. La mia allegria svanì. Udii come in sogno un tuono lontano, che mi spaventò.    

  “E questo cos’è?” – sussurrai sconcertata e feci un passo indietro.   

   Stavo per alzare la mano per fare lo scongiuro contro il malocchio, quando essi aggrottarono In fronte. Con quale splendida disinvoltura si unirono le loro sopracciglia, curve come gli archi dei cacciatori! La luce del tramonto si stemperò e vidi, nell’oscurità che all’improvviso li avvolse, i loro volti,     come torce danzanti,    delineati dai rossi e dai gialli delle fiamme. Sentii che vedevano dentro di me, che i miei desideri e le mie debolezze erano per loro visibili come la mercanzia esposta nei tendoni del mercato.    

   Una desolazione vasta e profonda, come mai avevo provato prima, mi seccò la bocca. Le mie ginocchia vacillarono.    

   Quelli corrucciarono le labbra in un gesto di impazienza, ed ebbi ancora più paura. Udii     il fragore delle grandi acque, come la voce dell’Onnipotente.    Era come se, invece di essere alle porte di Sodoma, mi trovassi nel bel mezzo di una battaglia in cui si affrontavano due eserciti. Ricordai che sarei morta. Se non proprio in quel momento, un giorno.    

   Mi portai la mano al petto e mi si annebbiò la vista. Quando stavo per cadere al suolo, mi sorrisero. La paura e lo strepito sparirono. La brezza portò con sé l’odore di letame e marciume del mercato. Tornai in me, disorientata e nervosa. I forestieri smisero di prestarmi attenzione e si girarono verso mio marito. Lot restituì loro lo sguardo con orgoglio. Lui non aveva paura di loro.    

   Camminarono al suo fianco con passo altero, senza prestare attenzione alla città che ribolliva intorno a loro, senza fare elemosine ai mendicanti né accettare le ghirlande di anemoni offerte dai venditori di fiori. Tutti li guardavano, abbagliati dalla loro bellezza, ma coloro ai quali rivolsero lo sguardo impallidirono come ero impallidita io. Tadal, il nostro anziano vicino, ubriaco e allegro, si avvicinò per offrire l’ospitalità della sua casa.    

   Nonostante Lot lo guardasse con la riprovazione abituale, Tadal disse loro:    

  “Venite a casa mia, affascinanti stranieri, venite con Lot e la sua famiglia. Sacrificheremo un vitello per Voi…” li invitò, tendendo loro la mano.   

   I forestieri lo guardarono con gli occhi socchiusi.    

   Le loro pupille brillarono sotto le palpebre allungate, e Tadal cadde in ginocchio con gli occhi chiusi. Chinò la bianca testa sul petto e singhiozzò. Le mani nodose del vecchio strapparono la ghirlanda di fiori che portava al collo e i petali gialli gli si sparsero in grembo. Le sue dita si mossero rabbrividendo sulla tunica e le pieghe si aprirono, lasciando allo scoperto la pelle rugosa del busto. Seppi che Tadal, anche lui, aveva ricordato il destino di tutti noi esseri viventi.    

   Due donne che portavano una cesta carica di formaggi si fermarono per aiutarlo, ma lui non si lasciò toccare da loro, vacillando sui talloni come un bambino. Era solo, con la certezza della propria morte.    

   Lot alzò il mento e camminò in fretta, guidandoli, schivando la figura prostrata del vecchio. Essi non lo guardarono nel passargli a fianco. Sollevarono le tuniche, come se il contatto con il vecchio potesse macchiarle. Intravidi una caviglia snella e bruna, un piede delicato e puro, un piede che non sembrava aver mai camminato sulla terra.    

   Procedevano con la vista fissa in un punto al di sopra delle nostre teste, con occhi impavidi come quelli dei falchi. Sentii una grande vergogna. Volli fermarmi ad aiutare l’anziano ad alzarsi dalla polvere, ma, per la seconda volta nel corso di quella mattina, ebbi paura. Andai avanti. Prima di aprire la porta di casa, mi girai a guardare il vicino. Tadal gemeva, con il volto bagnato dal pianto. Si passò il dorso della mano sulla bocca, e il carminio con cui si era dipinto le labbra gli macchiò la guancia. Sembrava sangue. Mi affrettai ad aprire. Mio marito e gli stranieri entrarono, e chiusi la porta dietro di noi.    

   Io amavo la città. Uomini nati prima di noi la innalzarono su questa terra fertile, così diversa dal deserto da cui venivamo, in cui tutto annunciava la morte. Qui abbondavano i pozzi, gli orti e i giardini. Gli ingegneri del re Bera deviarono il corso del fiume, costruirono templi e palazzi. Sodoma era una variopinta oasi; all’ombra delle sue palme noi abitanti trovavamo nei corpi degli altri la dolcezza e i piaceri che il deserto aveva negato ai nostri antenati.     

   Sodoma ci aveva accolti, come accoglieva tutti. Qui nacquero e crebbero le mie due figlie.    

   Già una volta eravamo stati strappati da lei e il mio cuore aveva languito nel perdere di vista le sue mura. Dopo la battaglia della valle di Siddim, nella guerra contro i quattro re, quando i vincitori svuotarono la città delle sue ricchezze, portarono via molti di noi per venderci come schiavi. Abramo, lo zio di Lot, riunì trecentodiciotto uomini e ci riscattò. Il re Bera ci riportò indietro. Io piansi di felicità quando tornammo; Lot pianse di rabbia e non volle accettare i regali del re.    

  “Mio zio, il fratello di mio padre, mi ha lasciato in potere di Bera. Mi ha lasciato qui in questa città corrotta!” ripeteva.   

   Quando io cercavo di consolarlo, si irritava e mi accusava di amare questa città sporca di amore carnale. Giacché era vero, tacevo.    

   Le mie figlie erano sedute davanti al telaio, ma si alzarono e vennero a darci il benvenuto quando ci sentirono arrivare. Sui loro visi si disegnò la stessa sorpresa che sicuramente era comparsa sul mio quando li vidi; le loro alte figure dominavano come giovani divinità la fresca penombra della mia casa. Gli ospiti si mantennero dietro Lot, con la testa china. Le lunghe ciocche nere dei capelli coprivano loro il volto, ma anche con il viso nascosto erano più belli di qualsiasi altro uomo.    

   Lot mi fece un cenno con la mano. Volli evitare che le mie figlie li guardassero negli occhi. Mi immaginai il fervore che avrebbe risvegliato la bellezza portentosa dei forestieri, ed ebbi paura che essi esercitassero il loro incanto sul cuore delle mie figlie. Le presi per mano e le portai in cortile con il pretesto di riempire la brocca al pozzo.    

  “Non interrompete vostro padre quando parla con i suoi parenti. Sono venuti a Sodoma a trattare di questioni importanti.” 

  “Sono nostri parenti? Madre, sono bellissimi. Sono così tutti gli ebrei? – chiese Leah, la maggiore.”  

  “Non lo so. So solo che voi due dovete andare nella vostra stanza e rimanere in silenzio. Non voglio vedervi finché non se ne siano andati di qui. Non fate rumore, non osate rivolgere loro la parola. Andate e ubbidite!” dissi loro.   

   Il timore mi portava ad alzare la voce e a guardarle con durezza.    

  “Andate! Farò io gli onori di casa…” ripetei. Esse mi guardarono con sorpresa. Le presi per un braccio e le portai nella loro stanza, conficcando le unghie nella loro pelle morbida. Strinsi i denti e le avvertii:   

  “Guai a quella di voi che mi contraddice…”   

   Allora uscii di nuovo in cortile a riempire la brocca per lavare i piedi agli sconosciuti.    

   Si diceva che gli abitanti di Sodoma erano dei pusillanimi, che la paura di morire li obbligava ad essere schiavi dei piaceri. È vero che per noi il piacere era un incantesimo che ci faceva dimenticare che un giorno non ci saremmo più stati.    

   Quando Lot e io eravamo giovani, e lui si stendeva su di me, la morte si allontanava, spogliata delle sue armi, vinta dal peso del suo corpo tiepido. Durante le prime notti, mentre in città altri si amavano nello stesso nostro momento – quanto benevola e fraterna mi sembrava la coincidenza, essere uniti nel piacere contemporaneamente ad altri di cui non sapevamo nemmeno il nome! -, credetti di capire perché ci era stata concessa la vita. A Sodoma il desiderio e la bellezza, effimeri e onnipotenti, sono sacri.    

   Lot sembrava capirlo, allora. Quando rimasi incinta e lui veniva a me di notte, mi abbracciava da dietro, con le mani intrecciate sul mio ventre rigonfio e mormorava parole d’amore con le labbra contro la pelle del mio collo. Io sentivo che le nostre vite erano parte di un fiume impetuoso a cui le nostre figlie si aggiungevano. Ubbidii ai costumi degli ebrei e non ebbi mai un altro uomo. Ciononostante, imparai da Sodoma ciò che Sodoma aveva da insegnarmi; quando la mia bocca si chiudeva sulla sua e il mio corpo umido di sudore scivolava su di lui, non erano solo figli ciò che io volevo.    

   Durante il giorno, Lot cambiava. Non mi parlava se non per darmi ordini. Guardava con disprezzo i nostri vicini e con espressione amara indicava gli uomini che si coronavano di fiori, gli uomini e le donne che lo guardavano con desiderio. Quando, secondo l’uso dei sodomiti, quelli sollecitavano i suoi favori, sulle sue labbra si disegnava una smorfia di schifo e rispondeva con insulti. Respingeva persino le giovani donne che qualche volta osavano cercarlo, tanto più crudele e sdegnoso quanto più loro erano belle.    

   lo toccavo il corpo magro e duro di mio marito, studiavo i suoi occhi neri, il profilo aquilino della famiglia di Abramo, e capivo che fosse desiderato, anche se per lui l’omaggio del desiderio era un affronto.    

   Gli ospiti si sedettero di fronte a me. Non dissero una parola né mi guardarono finché, con la bacinella piena d’acqua, mi chinai sui loro piedi. Nemmeno un granello di polvere insudiciava quella pelle liscia come quella di una statua! L’acqua non si intorbidì, né si intiepidì al contatto. Io evitavo i loro occhi, ma le mie dita scivolarono sul tallone, rotondo e duro come una pietra di fiume. La mia mente correva sfrenata, osando, senza che io riuscissi a contenerla: e se mi fossi portata il piede alla bocca? Che cosa sarebbe successo se avessi baciato dolcemente il collo alto e delicato? Mi immaginai il polpaccio, il disegno fine delle ossa del ginocchio, la coscia lunga, il fianco stretto. Mi chiesi se la bellezza dei forestieri sarebbe aumentata nell’atto dell’amore, nudi, arrossati e sudati, e desiderai addolcire l’espressione severa delle loro labbra con un bacio. Ma quel desiderio mi faceva paura, poiché sospettavo che essi l’avrebbero notato e l’avrebbero considerato indecente.    

   Leone sussurrò:    

  “Sei schiava della carne, come tutti quelli che abitano in questa città. Polvere e cenere è il tuo corpo, donna. Non sono ciò che immagini.”   

   Nonostante avesse a malapena mormorato il rimprovero, sentii come se avesse gridato contro di me e la sua voce fosse quella di un cembalo di bronzo. Mi sentii impudica come un animale che fornicasse a un canto della strada.    

   Il rossore mi bruciò le guance e il sudore mi imperlò la fronte. Il piede del forestiero, una scultura perfetta tra le mie mani, pesava come se fosse di pietra. Lo lasciai andare, e lui lo nascose lentamente tra le pieghe della tunica.    

   Seppi che non solo indovinarono quello che io pensavo, ma anche – e soffrii come se fossi stata nuda sotto il sole del deserto – che videro attraverso i vestiti i miei seni maltrattati dal tempo, i miei fianchi molli, il mio ventre striato. Ah! Come desiderai di essere di nuovo la ragazza che Lot prendeva di notte!    

  “Cattivi e peccatori agli occhi di Dio. Ma sono solo polvere e cenere” ripeté quello che sembrava un’aquila e allontanò i piedi dalla bacinella prima che io li toccassi.   

   Seppi allora che neppure quando ero più bella avrei potuto piacergli. Le mie mani tremarono e l’acqua si sparse.    

   Mangiarono il pane di casa mia senza far rumore. Sembrava che non masticassero, né inghiottissero. Con espressione assente spezzavano il pane e se lo mettevano in bocca, e il pane spariva come se fosse stato fatto d’aria, non con l’orzo seminato e raccolto dalla gente di Sodoma. Lot li servì con una familiarità che mi sorprendeva e un po’ mi tranquillizzava.    

   A Sodoma l’amore era una religione di cui tutti erano officianti. Ciò mi rendeva felice. Ricordavo, anche se ero una bambina quando passammo di lì, la fame nel Negev; gli dei con testa di sciacallo degli egizi, e mi pareva che Sodoma fosse la più dolce delle città. Il pomeriggio mi piaceva sedermi sulla soglia e vedere le coppie di ragazzi, con la peluria che era appena un’ombra sulle labbra, passeggiare mano nella mano. Le ragazze formavano circoli all’ombra dei terebinti, truccandosi le labbra e spalmandosi miele sui seni mentre arrivavano gli uomini, baciandosi dolcemente tra di loro per ingannare l’attesa.    

   Educai le mie figlie secondo le leggi ebraiche. Erano già promesse in sposa a giovani che Lot approvava, ma esse, come me, si lasciavano avvolgere dall’aria profumata e carica di sospiri di Sodoma.    

   Lot, invece, passava i pomeriggi fuori dalla città, nel luogo più desolato, con lo sguardo fisso all’orizzonte. Corrucciato e silenzioso, tracciava disegni sulla sabbia con un bastone; era come se avesse nostalgia del deserto.    

  “È una città peccatrice” mi diceva quando a sera entrava nel nostro letto. Io assentivo, perché so che a Sodoma, come in qualunque altro posto, c’era chi aspettava acquattato nell’oscurità con il pugnale in mano, chi rubava e chi mentiva. Sapevo anche che Lot si riferiva agli usi della città e preferivo non discutere.   

  “Sì, è una città peccatrice” gli rispondevo. E prendevo il fuso e la conocchia per unirmi alle mie figlie.   

   Quello che più disgustava Lot erano i rituali di fecondità: la lunga fila di vergini che, ogni primavera, agghindate come statuine, aspettavano che il sacerdote desse il segnale per entrare nel tempio della dea e aspettare gli uomini. Quelle notti il tempio vibrava dei gemiti degli amanti; la città diventava un’immensa colombaia, piena di volatili amorosi che tubavano all’unisono. Quelle notti Lot usciva dalla cinta muraria e dormiva steso sotto il cielo stellato. Con il passare degli anni smise di andarci solo di notte o solo in primavera; quel luogo divenne il suo rifugio nei pomeriggi di tutto l’anno.    

   Fu lì che lo trovarono.    


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