Nella traduzione del libro “Imaginary Cities” i dilemmi amletici sono tanti, e in un modo o nell’altro occorre venirne a capo. È una situazione particolarmente problematica: come comportarsi quando si deve rintracciare una citazione da un libro, per giunta superfamoso, ma il traduttore o la traduttrice “ufficiale” ha totalmente omesso proprio quella frase?

E l’ha omessa per una buona ragione… È sostanzialmente intraducibile in tutti i suoi livelli ed echi. Ma a me serve. Proprio quella, e con tutto dentro.

Eccola qua. Dal Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood.

“I wait, for the household to assemble. Household: that is what we are. The Commander is the head of the household. The house is what he holds. To have and to hold, till death do us part.

The hold of a ship. Hollow.”

Il gioco di parole tra household (casa, famiglia) e hold (tenere in mano) viene reso esplicito, “the house is what he holds“, poi l’autrice passa alla formula fissa dei voti matrimoniali per poi saltare a un’altra accezione di hold, questa volta sostantivo, ossia la stiva di una nave. La parte cava di una nave in cui si accumulano le merci. Un utero.

C’è anche un’allucinante allitterazione in h, household, head, have, hold, che termina con un disperato “Hollow”. L’acca, quasi un sussurro aspirato, un sospiro. Il sospiro degli oppressi. Anzi delle oppresse.

Il tutto mi crea una sensazione acquatica di vuoto e nausea.

Non c’è che dire, un brano di un’importanza enorme nell’economia del romanzo. È la mano (hand) del Comandante che tiene (hold) la casa (house) e tutte le persone al suo interno (household), tutte donne ovviamente by the way, e tutte cave, vuote (hollow). Ed è impossibile non notare il collegamento tra la stiva della nave (sempre hold) e l’utero dell’Ancella che aspetta di essere tenuto e riempito dal Comandante. Tenere come sinonimo di possedere, di proprietà, non certo di “hold and cherish”, di mantenere, di tenere bene…

Leggendo questo brano mi si accendono più lampadine contemporaneamente ma nessuna dello stesso colore, mi parte un flusso di coscienza impazzito. Impossibile riprodurre tutte queste assonanze, questi echi, questi significati. Con tanta semplicità poi. Nessuna di queste parole ha in italiano un’etimologia analoga, con cui apparentare questi termini.


Il disagio dura poco. Penso con sollievo che tanto per questa citazione mi devo semplicemente rivolgere alla versione italiana già pubblicata a suo tempo. Mi procuro la versione del 1988 di Camillo Pennati, che non mi risulta poi modificata nelle edizioni successive. Un finissimo poeta, traduttore e redattore per Einaudi su invito di Italo Calvino. Insomma, non proprio l’ultimo arrivato.

Con sommo orrore, anzi horror, scopro che le frasi oggetto della mia citazione sono state omesse. Il concetto viene veicolato, nella sua generalità, ma tutti i livelli di cui sopra sono andati perduti. Neanche a dirlo, il mio autore fa riferimento esattamente a questo intrico di significati, alla “cavità”, alla “proprietà”, alla “casa”. E io devo trovare una soluzione.

Dopo un brain storming di settimane questo è quello che ho trovato.

“Attendo che la famiglia si riunisca. Proprietà domestica: questo siamo. Il Comandante è il proprietario. La casa è la sua proprietà. Avere e possedere, finché morte non ci separi. La nuda proprietà. Vuota.

Una profonda sensazione di tradimento, insoddisfazione e frustrazione. Una rabbia sorda, con troppe erre, che forse tradisce il sussurro in H dell’originale. È funzionale all’argomentazione che il mio autore fa nel suo testo, ma non mi soddisfa. Si perde la donna-nave, che traghetta esseri da un mondo a un altro, si perde il sospiro dell’oppresso, quel sussurro behind closed doors.

A volte occorre accontentarsi. Rassegnarsi. Sospirare.

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