Tratto da http://incipitmag.com/2017/03/20/rec-geom/

In Geometria della menzogna (il cui titolo originario in portoghese è Caderno de mentiras) la prima menzogna è quella dell’autore, che ci introduce di punto in bianco all’interno dei suoi quadri narrativi sapientemente orchestrati senza fornirci coordinate per orientarci, ma esponendoci invece con la massima serietà e proprietà di discorso eventi altamente improbabili. I suoi racconti sono frammenti incongrui, istantanee di vita che non possiedono inizio o fine, ma, come fogli strappati alle fiamme di un camino, ci offrono una verità parziale che siamo chiamati a completare con la nostra immaginazione o ad accettare per come ci è data. I personaggi sono portati al limite, non vivono che nelle loro azioni e nel fugace spazio di tempo che è loro concesso. La prosa essenziale, scevra di lirismi e descrizioni, gode di una lingua chirurgicamente precisa, in cui ogni parola è necessaria e significativa. Grande merito a questo proposito va anche al traduttore Giacomo Falconi per l’evidente ricerca terminologica.

L’atmosfera surreale dei fatti narrati estranea e soggioga il lettore, costretto a farsi strada nel labirinto di racconti senza il vantaggio di un filo conduttore. La verità, come recita un aforisma di Schopenhauer in apertura del libro, è impedita «non dalla falsa apparenza delle cose che conduce all’errore, né direttamente dall’indebolimento delle facoltà di raziocinio, ma da un’opinione preconcetta, un pregiudizio». E sono appunto questi pregiudizi ‒ appartengano essi ai personaggi o a noi lettori che al di qua della pagina formuliamo ipotesi e ci immaginiamo svolgimenti ‒ che vengono ripetutamente scardinati da finali in cui niente è come ce lo si aspetta. L’ironia che percorre tutta l’opera si rivolge anche verso lo scrittore stesso, come ne «Il narratore», un esempio di metascrittura e una presa in giro del lettore che, sorpreso dal finale, non potrà far altro che sorridere.
Non solo ironia, però: in questo ambiente surreale temi fondamentali come il dolore, la guerra, l’incapacità di trovare il proprio posto nella società, la crudeltà della derisione, l’ipocrisia del politico e le fondamenta di uno stato vengono evocati in una maniera che ricorda alcuni racconti di Cechov, in cui il messaggio della narrazione non viene mai spiegato ma piuttosto mostrato.

Pur essendo «geometrico» nella sua divisione in tre parti che esplorano diverse angolature di analisi della menzogna – verticale, obliqua, orizzontale –, il primo libro di Manuel Alberto Vieira possiede la qualità dell’indefinitezza. I suoi racconti, non delimitati da contorni interpretativi, appartengono alla zona d’ombra delle domande, che si moltiplicano e crescono ad ogni nuova parola. A lettura terminata rimaniamo con la sensazione di aver afferrato per un breve momento un’idea, l’essenza di qualcosa che però non riusciamo a fissare in parole, tanto fuggevole è la sua natura: ce l’abbiamo sulla punta della lingua ma non riusciamo a districarla dalle immagini che la accompagnano. È forse questa la natura della verità, a cui si arriva per esclusione solo dopo aver sfogliato i ventisei quadri menzogneri dipinti da Vieira con una tecnica irreprensibile.

Scritto da Vanessa Montesi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *